Autore: ijlm

CARASSALE U. : La responsabilita’ di Medici ed Enti: un momento di sintesi con l’invito ad altre riflessioni – Phisicians and Hospital Liability; a synthesis and a spur to further considerations.

CARASSALE U. (*):

 

La responsabilita’ di Medici ed Enti:

un momento di sintesi con l’invito ad altre riflessioni

Relazione alle VI Giornate Di Studio GISDI: “La medicina del piacere: tra  benessere e danno alla persona” . Sestri Levante (GE) 27 – 29 Ottobre 2011

 

(*) Avvocato – Attorney-At-Law. Studio Avvocati Carassale, Cocchi e Quaglia, Genova.

Corrisponding Author: Avv. Ugo Carassale, segreteria@ccq-avvocati.it

 

Riassunto:

La responsabilità dei Medici e delle Aziende Sanitarie è esaminata dal punto di vista del Diritto Civile, considerando la sua evoluzione nel tempo (dal torto al contratto, sino al contatto sociale) e le conseguenze procedurali relative: l’ onere della prova, che è passato dal Paziente al Prestatore d’ Opera, la causalità, con particolare attenzione a quella omissiva, i riflessi assicurativi.

Abstract:

Phisicians and Hospital Liability; a synthesis and a spur to further considerations.

The Italian Jurisprudence on Medical and Hospital Liability has changed during the last twenty years (from tort to contract, from contract to contact – the unwritten relationship arising between a Patient and a Doctor when the Patient walks in the Doctor’s office or the Hospital ). Related jurisprudence has changed regarding the burden of evidence and causality; this reflects on Insurance Companies and Policies.

1.L’inquadramento normativo e sociologico

E’ comunemente accettato che nel pensiero giuridico moderno si sono allineate due impostazioni, sostanzialmente contrapposte: due differenziate visioni filosofiche del sistema.

Una concezione c.d. Normativa ( che ha in Kelsen il suo maggior sostenitore) che configura il diritto come un complesso di norme valide ed efficaci, gerarchicamente organizzate, che trovano la propria legittimazione da una fonte di rango superiore, sino a pervenire alla regola fondamentale che giustifica l’intero ordinamento.

Si tratta di regole “di carta”, giustificate “dal solo dover essere”: è l’ordinamento stesso che le pone e le impone come norme generali, ovvero come norme individuali, che devono essere rispettate, perché è così l’ordine che deve essere osservato.

A tale concezione si è contrapposto un articolato pensiero che origina le proprie radici non dall’astrattezza, ma dalla concreta visione della realtà sociale. Le regole di diritto, regole reali, non regole di carta, descrivono l’effettivo comportamento umano, fronteggiano quelle che sono le esigenze della vita sociale.

In quest’ottica la forza vincolante della norma deve necessariamente essere flessibile e mutevole poiché l’attività di chi applica ed interpreta deve avere un carattere molto costruttivo.

Cotali concezioni hanno dato corpo anche alle vicende che oggi ci interessano nell’ambito delle quali si è assistito al passaggio da una concezione del diritto normativa ad altra concezione di natura sociologica; pur utilizzando le stesse regole, ciò che è cambiato è la sensibilità sociale, ossia la ratio decidendi.

E’ mutato l’atteggiamento della giurisprudenza nei confronti del soggetto che si trova in una situazione di bisogno, ed ha così creato un sottosistema di regole, di produzione giurisprudenziale, che si discosta dalla regola positiva.

 

  1. Inquadramento storico

2.1. Dal torto al contratto.

Secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico positivo il rapporto obbligatorio è un legame che collega alcuni soggetti, un vincolo in forza del quale un soggetto è tenuto ad un determinato comportamento verso l’altro.

Normativamente la fonte delle obbligazioni è disciplinata dall’art. 1173 del Codice Civile a tenore del quale “le obbligazioni derivano da contratto o da fatto illecito, o da ogni altro fatto o atto idoneo a produrle”.

Quindi, le obbligazioni nascono o da una regolazione pattizia o da un fatto illecito.

Nel primo caso i soggetti del rapporto si legano volontariamente.

Nel secondo caso, un fatto doloso o colposo crea il vincolo ed obbliga ad una prestazione che, di regola, è una riparazione.

In altre parole, il vincolo contrattuale non richiede un presupposto, che, per contro, è indefettibile nel fatto illecito.

Dispone, infatti, l’art. 2043 c.c. che è il fatto doloso o colposo che genera l’obbligazione risarcitoria. Pertanto, secondo la regola base del rapporto processuale, art. 2697 c.c., è il soggetto che richiede una riparazione che deve dimostrare: il fatto doloso o colposo; il danno ingiusto e il rapporto causale.

Nell’esame della contrattualistica del codice civile le arti liberali non trovano la loro collocazione nel libro delle obbligazioni, ma nel libro V, rubricato “del lavoro”.

I profili di responsabilità erano disciplinati dall’art. 2236 c.c., norma oggi pressoché totalmente dimenticata dalla giurisprudenza nella creazione del sottosistema di principi che governa la responsabilità di medici ed Enti.

Cotale norma, in via di sostanziale desuetudine, dispone che “ se la prestazione implica la risoluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave”.

Quindi, sostanzialmente, nella previsione legislativa del codice (promulgato nel 1942) gravava sul paziente di una struttura sanitaria l’onere di dimostrare gli elementi costitutivi della propria domanda.

La giurisprudenza ha, però, valutato di dover intervenire autoritativamente su tale impianto normativo, che ha ritenuto non più giustificato dall’evolversi dei tempi, e, non potendo intervenire sulle regole sostanziali, è intervenuta sul supporto processuale e, in particolare, sul carico degli oneri probatori, vale a dire sulla individuazione del soggetto che deve provare: infatti è notorio che la sussistenza di un onere probatorio in capo ad un soggetto è sinonimo di rischio processuale.

Chi non prova, perde!

Nella concretezza, se il paziente leso nella sua integrità fisico psichica non dimostrava che una determinata lesione gli era stata recata con colpa era soccombente nella controversia.

Ed ancora: se la prestazione implicava la risoluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà si imponeva la prova della sussistenza di una colpa grave.

Tale sistema, basato sulla prova della colpa, è un sistema fondato sul torto: è una costruzione giuridica molto vicina al mondo anglosassone.

2.2. Il vincolo contrattuale

La giurisprudenza, con una serie progressiva di decisioni, ha capovolto il termine generale della problematica inquadrando il rapporto ospedaliero (medico/paziente) nell’ambito del contratto e dando così corpo al citato “sottosistema di responsabilità” fondato sul contatto.

Detto inquadramento presuppone che la regola base non sia più l’art. 2043 c.c. (regola generale dei fatti illeciti), ma l’art. 1218 c.c., regola generale delle obbligazioni contrattuali.

Quest’ultima dispone: “il debitore che  non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

La costruzione giuridica della responsabilità non è più vista come essenziale della colpa; al contrario, esiste certamente responsabilità, cioè obbligo di riparazione, anche per un danno anonimo; per una infezione ospedaliera, di assai incerta genesi; per disorganizzazione… ed infine anche per errore medico.

Il fondamento della nuova disciplina è, quindi, affidato al mero inadempimento; ovvero all’inesatto adempimento e qualsiasi conseguenza negativa per il paziente resta a carico della struttura ospedaliera.

Cotale impostazione giurisprudenziale pare non considerare quanto disposto dal secondo comma dell’art. 111 della Costituzione, che dovrebbe essere regola di portata generale, cioè valida in ogni aspetto della giurisdizione: afferma infatti che “ogni processo si svolge nel contradditorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un Giudice terzo ed imparziale”.

Senonchè, capovolgendo in larga misura le regole fissate dal Legislatore del 1942 e ponendo ogni onere probatorio a carico di una parte, è il Giudice, non il Legislatore che aveva disciplinato la materia con l’art. 2236 c.c., che stabilisce a priori chi sia il soggetto potenzialmente soccombente: di conseguenza, si può affermare con certezza che è pur sempre rispettato l’art. 111 della Costituzione, 2° comma?

Qualche dubbio è più che evidente.

Certamente, così operando, la giurisprudenza pone a carico del medico e degli Enti la inefficienza dello stato sociale, sul presupposto che il medesimo sia in grado di meglio gestire, preventivamente, il rischio insito nella sua professione.

2.3. Dal contratto al contatto sociale

Realizzato il percorso accreditante l’inquadramento contrattuale del rapporto, in riferimento alla responsabilità della struttura ospedaliera, la Suprema Corte, con la decisione n. 589/1999, ha esteso cotale sistema anche al singolo medico.

Questi sarebbe vincolato al paziente (che spesso vede per pochi secondi) da un legame di natura contrattuale, ma da mero contatto sociale.

La motivazione giuridica sottesa alla decisione viene dai Supremi Giudici “suggerita dall’ipotesi, legislativamente prevista, di efficacia di taluni contratti nulli, ma allargata altresì a comprendere i casi di rapporti che nella previsione legale sono di origine contrattuale e, tuttavia, in concreto vengono costituiti senza una base negoziale e talvolta grazie  al semplice contatto sociale; si fa riferimento, in questi casi, al rapporto contrattuale di fatto o da contatto sociale”.

La pur confermata assenza di un contratto, e quindi di un obbligo di prestazione in capo al sanitario dipendente nei confronti del paziente, non è in grado di neutralizzare la professionalità (secondo determinati standard accertati dall’ordinamento su quel soggetto), che qualifica ab origine l’opera di quest’ultimo, e che si traduce in obblighi di comportamento nei confronti di chi su tale professionalità ha fatto affidamento, entrando “in contatto” con lui.

Che poi, come enunciato dalla Corte di Appello di Venezia il paziente confidi non sul medico, che nemmeno conosce, ma sulla struttura che può essere considerata “eccellente”, è problema che i Supremi Giudici neppure ritengono di dover considerare, e men che meno risolvere.

In conseguenza di tutto quando sopra esposto, sia la struttura ospedaliera, sia il medico strutturato nella medesima nel quale confiderebbe il paziente, sono vincolati alla prestazione richiesta secondo le regole fondamentali (contrattuali) contenute nell’art. 1218 c.c.

Pertanto, visto detto regime contrattuale, l’onere probatorio (sinonimo, come detto, di rischio processuale) viene a gravare sull’Ente Ospedaliero e/o sul medico.

Indipendentemente da tale orientamento giurisprudenziale, le norme sulla diligenza (ex art. 1176) restano invariate; il concetto di diligenza, previsto in tutti i tipi di obbligazioni, è unitario.

  1. L’onere e la vicinanza della prova.

In tema di onere della prova, decisiva è stata l’ormai cristallizzata Sentenza della Cassazione n. 13533/2001 la quale avrebbe posto fine ad un asserito conflitto interpretativo.

Infatti, un orientamento, presumibilmente maggioritario, riteneva che, in tema di richiesta processuale di adempimento contrattuale, il creditore potesse limitarsi a fornire la prova del proprio diritto di credito; altro orientamento, presumibilmente minoritario, in tema di richiesta processuale non di adempimento, ma di risoluzione (scioglimento) del contratto e risarcimento del danno, affermava che fosse il soggetto richiedente a dover dimostrare l’inadempimento.

Intendendo offrire all’interprete identica soluzione processuale, e così eliminare l’indiscutibile conflitto, e quindi ridurre ad unità il regime probatorio, la Suprema Corte ha ritenuto di dover enunciare il seguente principio: “in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’inadempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dall’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento”.

La ratio del sistema è stata ritrovata nel principio processualistico della vicinanza della prova, nel senso che il soggetto che deve dimostrare di aver adempiuto ha molte più possibilità di quante ne abbia l’antagonista di dimostrare il contrario.

Dopo l’enunciazione di cotale arresto giurisprudenziale, al quale ha dato immediata adesione il Giudice di merito, il principio processuale della vicinanza della prova è diventato la regola generale che, di fatto, ha vaporizzato l’art. 2697 c.c., superandone il dato testuale.

Cotale principio ha, quindi, ricevuto specifico accreditamento in materia di responsabilità di medici ed Enti con le decisioni n 4400/2004 e 11488/2004.

 

  1. Gli oneri probatori e la causalità omissiva

 

Attesa, quindi, la nuova concezione circa gli oneri probatori, oggi il dibattito è in ordine alla ricostruzione del nesso causale nell’ipotesi omissiva (mancata diagnosi, mancata terapia, mancato intervento) e nell’ambito delle due giurisdizioni, penale e civile, le quali operano su piani diversi.

Infatti, in sede penale, nell’accertamento del rapporto di causalità con riguardo ai reati omissivi impropri, devono essere applicati i seguenti principi:

  1. a) il nesso causale può essere ravvisato quando si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento hinc et nunc, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato, ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva;
  2. b) non è consentita automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale poiché il giudice deve verificare la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia, altresì, escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”;
  3. c) l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio.

Alla Corte di Cassazione, infine, quale giudice di legittimità, è assegnato

il compito di controllare la razionalità delle argomentazioni giustificative inerenti ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, alle inferenze formulate in base a essi e ai criteri che sostengono le conclusioni.

Palese, quindi, che nel processo penale si richiede la certezza processuale, vale a dire la prova del nesso “al di là di ogni ragionevole dubbio”.

Nell’ambito civilistico, invece, il percorso è tutto diverso.

Nel sistema della responsabilità civile, la causalità assolve, alla duplice finalità di fungere da criterio di imputazione del fatto illecito e di regola operativa per il successivo accertamento dell’entità delle conseguenze pregiudizievoli del fatto che si traducono in danno risarcibile.

Il nesso causale diviene la misura della relazione probabilistica concreta (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento e fatto dannoso da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera di avvedutezza comportamentale andrà più propriamente ad iscriversi entro l’orbita soggettiva dell’illecito.

In definitiva, quindi, la causalità civile ubbidisce alla logica del “più probabile che non”.

Di conseguenza, se è più probabile che non che il collegamento esista, piuttosto che non sussista, allora, in tale ipotesi, deve riconoscersi il collegamento causale tra l’omissione ed il danno.

  1. Obbligazione ad alta vincolatività

Nel sistema imposto dalla giurisprudenza con i principi or ora richiamati, anche l’antica ripartizione delle obbligazioni, di mezzo o di risultati, è stata totalmente superata ed abbandonata nella nuova concezione di obbligazioni di diligenza.

Ciò ha, quindi, consentito di vedere superate ormai risalenti concezioni di obbligazioni ad alta vincolatività che, per qualche tempo, hanno gravato, con particolare significato, alcuni professionisti, ad esempio odontoiatri, implantoghi, che per la natura propria della loro attività dovevano vincolativamente seguire un percorso preciso e realizzare il risultato atteso.

Nel nuovo concetto di obbligazione di diligenza è quindi richiesta a tutti una uniformità di condotta. Vale a dire di conformarsi a quelle regole tecniche ed ai consueti protocolli che emergono dagli studi più avanzati; dal consensus conference e/o da atti di indennizzo generale.

Se quindi nella posizione odontoiatrica non si rimarca più una diversificata obbligazione ad alta vincolatività, che oggi pare generalizzata nel generale dovere di alta diligenza, una variegata posizione può ancora gravare nel pericolo di essere coinvolti nella filiera di responsabilità da prodotti difettosi di cui alle norme poste a tutela del consumatore: v. artt. 114, 127 codice del consumo, ed in particolare l’art. 131 che prevede una responsabilità solidale di tutta la filiera, con azioni di regresso interno in relazione alla gravità delle singole colpe;

testualmente, il 2° comma di cotale norma specifica che “colui che ha risarcito il danno ha regresso contro gli altri nella misura determinata dalle dimensioni del rischio riferibile a ciascuno, dalla gravità delle eventuali colpe e dalla entità delle conseguenze che ne sono derivate. Nel dubbio la ripartizioni avviene in parti uguali”.

  1. Cautele pratiche

Infine, anche alla luce di quanto sopra argomentato, si enucleano una serie di semplici “consigli” che si ritiene possano essere utili e, parimenti, servire ad evitare la consueta decisione del Giudicante che, come detto, in mancanza di prova si traduce, spesso, nella grezza formula “il paziente ha sempre ragione”:

– concordare espressamente il lavoro da svolgere con documentazione scritta;

– effettuare un preventivo di spesa che indichi il limite del contratto;

– raccogliere in documentazione scritta l’informazione ed il consenso evitando il richiamo a formulazioni generiche come: “il paziente è stato informato”.

Tutto ciò in quanto, finché il medico si trova dalla parte dominante, e cioè prima di rendere la prestazione, deve adoperarsi al fine di precostituire la prova dell’ampiezza del contratto, dell’accordo del paziente, dell’informazione data e del consenso ricevuto.

  1. Impatti assicurativi.

Come è ormai percepito da tutti, il sistema imposto dalla giurisprudenza con i tre pilastri sopra ricordati (natura contrattuale dell’obbligazione; onere probatorio a carico del soggetto vicino alla prova; causalità materiale regolata dal più probabile che non) ha ampliato a dismisura l’area della responsabilità e del danno risarcibile.

Ciò ha provocato un pesante carico di costi sul mercato assicurativo che si è trovato non preparato ed in grave difficoltà economica.

Non solo, con una giurisprudenza molto sfumata la Suprema Corte, traendo l’occasione in materia di epatopatie post trasfusionali, ha dilatato i termini di prescrizione, rimettendo in discussione vicende antiche, che sembravano ormai sopite.

Il pericolo che tale orientamento dilaghi è evidente.

Nel mentre i Giudici non si accorgono del dissesto che il loro sistema sta recando, anche con la generalizzazione del sistema liquidativo adottato dall’Osservatorio milanese, nella monetizzazione del danno, anche in sedi ove le vicende economiche risultano largamente diverse, il legislatore, con la consueta lentezza, cerca di porre mano al sistema con progetti di interventi legislativi che non hanno approdato a nulla (c.d. progetto Tomassini e progetto Unificato) e che, codificando quanto deciso dai Giudici, dimostrano che nessuno oggi è seriamente convinto della bontà e della legittimità del sistema.

Negli effetti, mentre i costi assicurativi aumentavano ed i contratti si convertivano da polizza c.d. loss a polizza c.d. claims, con consegeuenze perniciose, il legislatore da un lato cercava di introdurre l’obbligo assicurativo per tutti e per tutto; dall’altro, però, iniziava a consentire l’autonomia assicurativa. Vero è che alcune Regioni (Toscana, Liguria ….) hanno oggi abbandonato ogni forma di copertura assicurativa che, peraltro, è stata rifiutata da tutti i primari assicuratori italiani.

A tale, infelice, situazione si è anche affiancata la legge finanziaria dell’anno 2007 che, a decorrere dal giugno 2008, ha colpito con nullità tutti i contratti stipulati da enti pubblici (e quindi anche da Aziende Ospedaliere) a copertura della R.C. dei dipendenti nella parte in cui possono essere colpiti della rivalsa per colpa grave nella loro condotta, produttiva di danno.

Tutto ciò, quindi, conduce ad una evidente inquietudine perché il medico, un tempo oggetto di attenzione e di riguardo nella tutela delle arti liberali, oggi viene inteso come “ambita preda risarcitoria” (l’espressione è tratta dalla sentenza della Suprema Corte n. 21619/07) che deve sopportare, oltre al resto, anche il rischio di una rivalsa erariale per danno da colpa grave che, prima dell’intuizione dell’accreditamento della responsabilità contrattuale, era la regola interpretativa concretamente ritenuta dalla giurisprudenza: in materia di tutela della salute ogni risultato negativo derivava da colpa grave ….

* * * *

Sintetizzando il “dramma” di chi esercita una professione a rischio, perché la categoria, in senso collettivo, non manifesta la propria inquietudine?

Nel dettato costituzionale la tutela della salute, in tutti i suoi aspetti compresa la tutela dei sanitari, ha meno dignità della giurisdizione?

E’ poi normale che la giurisdizione complessivamente impieghi più di 27 anni per porre fine alla controversia conclusa con il principio del “più probabile che non” (sentenza n. 21619/07), valutando in cotale spropositato arco di tempo, con decisioni tutte diverse l’una dall’altra, quello che un povero medico aveva potuto fare nell’ambito di una fugace visita di pronto soccorso?

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DEL TESTO INTEGRALE (IN ITALIANO)

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8-carassale

DELLA PIETRA B.: La farmacopea del piacere: i farmaci anoressizzanti – Pleasure Pharmacopeia: Anorexiant Drugs.

DELLA PIETRA B.*

La farmacopea del piacere: i farmaci anoressizzanti

Relazione alle VI Giornate Di Studio GISDI: “La medicina del piacere: tra  benessere e danno alla persona” . Sestri Levante (GE) 27 – 29 Ottobre 2011

*Professore Associato di Medicina Legale – Seconda Università degli Studi di Napoli .

Corresponding Author: prof. Bruno Della Pietra: Phone: +39 0815666018.

e-mail: bruno.dellapietra@unina2.it

 

Parole chiave: farmaci anoressizzanti, off-label, farmacovigilanza.

Keywords: anorectic drugs, off-label, pharmacovigilance.

 

Riassunto

In una società, come quella odierna, dedita ai valori di bello e di giovane si sviluppano sempre più trattamenti legati al raggiungimento di questi canoni di bellezza legati soprattutto alla magrezza. In questo contesto si inseriscono le problematiche legate al possibile uso terapeutico off-label di altri farmaci, dalle problematiche ancora in fieri inerenti l’evoluzione dalla ‘sperimentazione dei farmaci in IV fase’ alla ‘farmacovigilanza’ e, soprattutto, dall’uso extra-terapeutico di diete e di integratori con le correlate problematiche derivanti dalle “figure professionali” che in un tal tipo di pratica, non sempre clinica, vengono coinvolte

 

Abstract

Pleasure Pharmacopeia: Anorexiant Drugs.

In a society, like our, dedicated to the Values as the Beauty and the Youth, are increasingly developing treatments related to the achievement of high standards of beauty especially related to thinness. In this context, are arising problems related to the possible therapeutic off-label use of some drugs, inherent with  the ongoing evolution from “testing of drugs in Phase IV” to “Pharmacovigilance” and, above all, problems related to the extra-therapeutic use of diets and supplements, and problems related to the “professionals” involved in this type of practice, not always clinical.

L’intervento è inserito nel contesto della sessione “La farmacopea del piacere: i farmaci anoressizzanti” condivisa con altri Colleghi con i quali si è ritenuto opportuno suddividere i diversi aspetti da affrontare.

Del tema che ci è stato assegnato ho gradito prendere in esame, in particolare, un settore per il quale gli aspetti dottrinari e valutativi medico-legali non sono di normale frequentazione: l’obesità o il sovrappeso e le “cure dimagranti”; la moda tuttora ispirata ancora a modelli di “magrezza”; i riverberi sull’industria del piacere e del piacersi – anche clinica e farmaceutica – e l’uso “patologico” delle “cure” e/o delle “diete” verso modelli di “dipendenza”.

In tal senso si rinvia agli altri interventi le tematiche più specifiche in tema di “farmaci anoressizzanti” [peraltro ormai non più presenti in farmacopea nel nostro Paese] con un quasi completo abbandono dell’uso terapeutico.

Gli aspetti del tema assegnato su cui mi sono, in particolare, soffermato sono rappresentati: dal possibile uso terapeutico off-label di altri farmaci, dalle problematiche connesse ed ancora non definite dell’evoluzione dalla ‘sperimentazione in IV fase’ alla ‘farmacovigilanza’ e, soprattutto, dall’uso extra-terapeutico di diete e di integratori con le correlate problematiche derivanti dalle “figure professionali” che in un tal tipo di pratica, non sempre clinica, vengono coinvolte.

Non si sono affrontati gli aspetti relativi alle terapie chirurgiche dell’obesità [chirurgia bariatrica], degli esiti della stessa e della chirurgia estetica che – anche se aventi, spesso, le stesse indicazioni dell’uso dei farmaci anoressizzanti – sono davvero lontane dal tema proposto e meritevoli di autonoma ed approfondita trattazione.

Non vi è dubbio che negli ultimi decenni si sia sviluppata, nel nostro Paese ed in tutto il mondo occidentale, una cultura legata a valori ispirati al ‘bello ed al giovane’[1] e, di conseguenza, sono proliferati anche i trattamenti e le terapie volti a raggiungere questo scopo.

Prima di addentrarci in questa problematica sembra opportuno ricordare come l’obesità ed il sovrappeso vengano definiti mediante il calcolo dell’indice di massa corporea (IMC)[2]. Con questo parametro è possibile definire il peso normale con un IMC tra 18,5 e 24,9; il sovrappeso se tra 25,0 e 29,9; l’obesità se superiore a 30.

Non vi è dubbio che i farmaci anti-obesità abbiano i loro goal terapeutici in: a) riduzione dell’assunzione di calorie [riduzione della fame (anoressizzanti), aumento della sazietà, riduzione della preferenza per grassi e carboidrati, riduzione dell’assorbimento intestinale]; b) aumento del consumo energetico [incremento dell’attività fisica; aumento del metabolismo basale, della termogenesi e dell’ossidazione dei grassi].

Per perseguire tali finalità vi sono numerosi tipi di farmaci e tra di essi ve ne sono alcuni – trattati anche negli altri interventi della sessione – che vengono utilizzati in modalità ‘off-label’.

Va sin da subito sottolineato che per uso ‘off-label’ di farmaci si intende correntemente l’impiego di farmaci non conforme a quanto previsto nella scheda tecnica autorizzata dal Ministero della Salute e, quindi, una prescrizione di farmaci per indicazioni, modalità di somministrazione e dosaggi differenti da quelli indicati nel foglio illustrativo.

Si tratta di molecole ampiamente conosciute, ma per le quali nuove evidenze scientifiche suggeriscono un loro razionale uso anche in situazioni cliniche non previste nella scheda tecnica e nel foglietto illustrativo e per le quali, quindi, non sono stati autorizzati all’atto dell’immissione in commercio dal Ministero della Salute o dall’EMEA[3]. Nonostante la preoccupazione per la sicurezza dei pazienti (l’efficacia e la sicurezza di questi farmaci sono state, infatti, valutate molto spesso in Paesi diversi) ed i costi a carico del Sistema Sanitario, in alcuni casi le prescrizioni off-label si sono rivelate una valida alternativa terapeutica per patologie che non rispondono alle terapie correnti[4]. A tal proposito si ricorda il caso della regione Emilia Romagna che con la Legge Regionale n° 24 del 22 dicembre 2009 di fatto autorizzava l’utilizzo di farmaci off-label sancendo all’articolo 35 della predetta Legge che “la Regione, avvalendosi della Commissione regionale del farmaco, può prevedere, in sede di aggiornamento del Prontuario terapeutico regionale, l’uso di farmaci anche al di fuori delle indicazioni registrate nell’autorizzazione all’immissione in commercio (AIC), quando tale estensione consenta, a parità di efficacia e di sicurezza rispetto a farmaci già autorizzati, una significativa riduzione della spesa farmaceutica a carico del Servizio sanitario nazionale e tuteli la libertà di scelta terapeutica da parte dei professionisti del SSN”.

Tuttavia, questa decisione adottata dall’Assemblea regionale è stata bocciata dalla Corte Costituzionale con la Sentenza n° 8/2011 con la quale si è dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 35 della legge della Regione Emilia-Romagna 22 dicembre 2009, n. 24 (Legge finanziaria regionale adottata a norma dell’art. 40 della legge regionale 15 novembre 2001, n. 40 in coincidenza con l’approvazione del bilancio di previsione della Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2010 e del bilancio pluriennale 2010-2012)” in quanto non è possibile prevedere una diversa prescrivibilità, intesa per diversa indicazione terapeutica, in una Regione rispetto alle altre del nostro Paese sino a quando sarà in vigore l’attuale assetto costituzionale.

La tematica relativa all’uso off-label dei farmaci mi porta anche a riproporre un tema già affrontato in altri consessi scientifici e relativo all’evoluzione normativa che, da oltre un decennio, si è avuta in tema di ‘sperimentazione dei farmaci’ ed in tema di ‘farmacovigilanza’.

Si vuole ricordare come la ‘sperimentazione dei farmaci’ sia differenziata in Italia ed in Europa in una fase pre-clinica con la quale la molecola viene studiata in laboratorio su di un modello non umano e realizzato come un sistema mirato verso una patologia per la quale ne vengono rilevati gli effetti. Dopo aver verificato che la molecola in esame ha l’efficacia desiderata sul target farmacologico e un accettabile grado di sicurezza per l’utilizzo, si passa alla fase sperimentale clinica dove se ne verificano la tollerabilità e l’efficacia sull’uomo.

Tale ‘fase sperimentale’ si suddivide in: fase I o di ‘farmacologia clinica’; fase II o di ‘studio di efficacia’; fase III o ‘studio multicentrico’.

Superate queste tre fasi si passava alla Fase IV della sperimentazione farmaceutica (post-marketing) che, prima degli anni ’70, comportava che “una volta ottenuta la registrazione, la ricerca clinica” proseguiva “con maggior libertà di scelta da parte del Direttore medico locale dell’Industria e dei vari sperimentatori”[5]. Negli anni ’70 tale Fase venne inquadrata dai farmacologi francesi – che ritenevano necessario definire un protocollo di controlli per definire meglio il profilo di sicurezza di un farmaco – come ‘Farmacovigilanza’[6] e tale inquadramento venne, poi, adottato (dopo circa quindici anni) dagli altri Paesi ed, in particolare, dai Paesi Europei.

Questa faseche è relativa all’uso del farmaco su tutta la popolazione generale – deve essere individuata come quella nella quale la valutazione del rischio ed il monitoraggio dell’incidenza di effetti indesiderati (reazioni avverse) potenzialmente associati al trattamento farmacologico ne comportano variazioni nelle indicazioni o nel tipo di utilizzo per l’ulteriore permanenza in commercio o, in alcuni casi, il ritiro dal commercio.

A tal fine comprende, quindi, una serie di attività finalizzate a valutare in modo continuativo le informazioni sulla sicurezza dei farmaci e ad assicurare alla popolazione un rapporto rischio/beneficio favorevole per il loro uso.

A livello normativo la “Farmacovigilanza” è regolamentata dal D.Lgs. 18.02.1997, n° 44 “Attuazione della Direttiva 93/39/CEE, che modifica le direttive 65/65/CEE 65/318/CEE e 65/319/CEE relative ai medicinali”, dal D.Lgs. 08.04.2003, n. 95 “Attuazione della direttiva 2000/38/CE relativa alle specialità medicinali” nell’ambito della modifica – al punto c), dall’art. 1 – dell’art. 4  del D.Lgs. 18.02.1997 n° 44. Successivamente è stato emanato il D.L.vo 219/06 che riguarda le segnalazioni spontanee, da letteratura e da studi osservazionali; non si applica invece alle segnalazioni di reazioni avverse che si verificano nel corso di sperimentazioni cliniche, la cui gestione è regolamentata dal D.L.vo 211/03. Peraltro, il D.L.vo 219/06, regolamentando il funzionamento del sistema nazionale di farmacovigilanza – che fa capo all’AIFA in Italia ed all’EMEA in Europa – assegna a ciascun soggetto coinvolto compiti precisi e prevede specifici obblighi, integrati dalle norme previste dai Decreti 24 maggio 2002, 6 novembre 2003 e 12 dicembre 2003, dalle procedure via via comunicate dall’AIFA, attraverso il suo sito web e la Rete Nazionale di Farmacovigilanza e dalle linee guida comunitarie indicate progressivamente dall’EMEA.

In conclusione, con quest’ultima importante normativa si è definitivamente posto un confine tra la ‘sperimentazione’ e la ‘farmacovigilanza’ che porta, però, a confermare tutti i dubbi espressi all’epoca ed ora in relazione all’abolizione della “sperimentazione in fase IV” [che, soprattutto, per le nuove molecole poteva sussistere e prevedere studi clinici di verifica su una più ampia popolazione] e non essere sostituita tout court dalla “farmacovigilanza” che rappresenta una importante conquista per il monitoraggio continuo di tutti i farmaci in commercio onde poterne su tutta la popolazione saggiarne le ‘reazioni avverse’ che potrebbero manifestarsi anche per l’impiego in associazione con altri nuovi farmaci o con influenze ambientali o comportamentali (ad esempio uso di droghe) che potrebbero aver variata la sicurezza di un farmaco ormai ritenuto collaudato nella pratica clinica.

Ciò potrebbe comportare – all’atto del verificarsi di un “danno alla persona” per evento avverso – l’insorgere di problematiche giuridiche, giurisprudenziali e medico-legali relative, in particolare, al “consenso informato” ed alla “scelta” di un farmaco “nuovo” quando la ‘scelta terapeutica’ poteva prevedere ancora l’utilizzo di un ‘farmaco collaudato’.

In una tale ipotesi potrebbe insorgere una ‘colpa per imprudenza’, soprattutto quando tale scelta terapeutica viene effettuata nell’ambito di una prescrizione ‘non protetta’.

Un ultimo e particolare aspetto da affrontare nel corso di questa breve trattazione è quello inerente le diete.

Il termine dieta significa “metodo di vita o, più particolarmente, genere determinato di alimentazione, adottato per fini terapeutici o igienici[7]. Tuttavia, v’è sempre stata confusione e sovrapposizione di ruoli per decidere chi dovesse “prescrivere” la dieta al paziente.

Nella recente sentenza n° 3527 del 18 febbraio 2011 della I Sezione Civile del Tribunale di Roma è stato affermato che “il biologo può solo suggerire o consigliare profili nutrizionali finalizzati al miglioramento dello stato di salute e mai, in nessun caso, può prescrivere una dieta come atto curativo, che rimane sempre un’attribuzione esclusiva del medico”.

Come a dire che la prescrizione di una dieta nella cura di uno stato patologico appartiene solo alla professionalità del medico; infatti alla professionalità dei Biologi – a norma del parere del Ministero della Salute del 15/12/2009 – appartiene solo il “poter stabilire in maniera autonoma le diete necessarie per mantenere l’individuo in buona salute, valutando non solo le caratteristiche nutrizionali dei vari alimenti, ma altresì se sia il caso di ricorrere ad integratori alimentari”.

E, tuttavia, bisogna prendere in considerazione anche la professionalità di un’altra figura sanitaria quale quella dei Dietisti; ad essi appartengono “tutte le attività finalizzate alla corretta applicazione della alimentazione e della nutrizione ivi compresi gli aspetti educativi e di collaborazione all’attuazione delle politiche alimentari, nel rispetto della norma vigente[8]. Tuttavia, nell’articolo 2 del D.M. n° 744 del 1994[9] è lo stesso Legislatore a generare confusione riguardo le mansioni del dietista usando la dizione “elabora, formula ed attua le diete prescritte dal medico e ne controlla l’accettabilità da parte del paziente”.

Ulteriori notevoli problemi di eventuale ‘danno alla persona’ potrebbero derivare dall’incongrua indicazione che viene “suggerita” da profili professionali quali quelli di: Farmacisti; Erboristi; Allenatori e preparatori atletici in ambito sportivo agonistico e, soprattutto, non agonistico; Personal trainer ed Estetisti.

In conclusione la normativa in materia di prescrizione di diete appare troppo poco chiara e da ciò nasce l’esigenza di una più attenta e mirata regolamentazione da parte del Ministero della Salute che tenda, fondamentalmente, a campagne di intervento sanitario – preventivo e curativo – sull’obesità e su tutte le forme di ‘disturbo dell’alimentazione’ e, nel contempo, di una chiara informazione ai cittadini sulle figure professionali competenti – e per quali attribuzioni – e di quelle incompetenti.

 

Bibliografia

  • Massimino F. La prescrizione dei farmaci “off-label”: adempimenti, obblighi e responsabilità del medico. Danno e Responsabilità 2003(10): 925 – 937.
  • Marino A. Farmacologia clinica e farmacoterapia. Napoli: Idelson; 1973.
  • Puccini C., Istituzioni di Medicina Legale, Casa Editrice Ambrosiana, Milano 2003.
  • Battaglia S. Grande dizionario della lingua italiana. Torino: Utet; 1967.

[1]Sui giornali troviamo quotidianamente tracce di questo dibattito (Elisa Manacorda scrive sull’Espresso dell’08.10.2011: “Tutto ciò oggi non può prescindere dall’altro obiettivo della ricerca scientifica e medica che tende ad allungare la vita dell’uomo ed a migliorarne sempre di più la qualità per cui lo studio delle abitudini alimentari è divenuto uno studio prevalente alla ricerca della giornalistica definizione di ‘amortalità’ che riconosce nelle creme, nelle diete, nel bisturi, nei farmaci, ecc. i mezzi per inchiodare le lancette dell’orologio in un eterno presente”. In Italia vi sono 16.000 persone che hanno superato i cento anni. Nello stesso articolo vengono riportate immagini di donne di età superiore ai 70 anni e si pone l’accento sulla moderna scienza della “glicobiologia” per la quale lo studio degli zuccheri (in particolare dei glicani) è mirato all’evidenziazione del ruolo che i carboidrati hanno sul sistema immunitario e sulla longevità. In altri paesi come gli Stati Uniti d’America in estate sul The New York Times veniva pubblicato un articolo di Alexander Edmonds intitolato “A necessary vanity” (una vanità necessaria) in cui ci si interrogava proprio sul diritto al bello.

[2] IMC = peso in kilogrammi/(altezza in metri)2.

[3]Massimino F. La prescrizione dei farmaci  “off-label”: adempimenti, obblighi e responsabilità del medico. Danno e Responsabilità 2003(10): 925 – 937.

[4]Nell’ambito delle terapie contro l’obesità i farmaci che possono essere usati in off-label sono principalmente: buproprione, metformina, acarbosio, cimetidina, diazossido, brocriptina, zonisamide, felbamato e soprattutto topiramato. Riguardo quest’ultimo si precisa che è già stato al centro delle cronache giudiziarie nazionali quando la dott.ssa M.D. veniva tratta in giudizio dinanzi al Tribunale di Pistoia – Sezione distaccata di Monsummano Terme per rispondere del reato di lesioni dolose aggravate in danno della minore R. V. ex artt. 582 e 583 c.p., consistite in sonnolenza, incubi, emicrania, depressione, eccitabilità ed un episodio di allucinazioni, oltre che nella insorgenza di calcolosi renale, di disturbi oculari e di colecistopatia, per una durata superiore a giorni 40 (anche se il capo di imputazione dava atto che alcune delle patologie risultavano ancora in corso).  Alla stessa veniva contestato di avere provocato le predette lesioni per avere prescritto, nella qualità di medico, alla minore sopra indicata, per la cura dell’obesità, l’assunzione del farmaco Topamax, quale terapia sperimentale, in mancanza di adeguata informazione ed espresso consenso del paziente o di chi esercitava la potestà genitoriale, in dosaggi superiori a quelli consentiti (200 mg al giorno, dose in seguito raddoppiata), senza seguire il lento incremento della dose raccomandata. Il Giudice di I grado, all’esito del dibattimento e sulla base anche di perizie tecniche, escludeva la sussistenza del rapporto causale tra Topamax ed alcune delle patologie elencate nel capo di imputazione (diplopia oculare, calcolosi renale e colecistopatia), mentre condivideva l’impostazione accusatoria secondo la quale la M. D. era responsabile del reato di lesioni volontarie aggravate. Inoltre, lo stesso giudicante riteneva che la prevenuta aveva agito cercando di sfruttare l’effetto anoressizzante del medicinale (uno degli effetti collaterali del predetto medicinale), così accettando il rischio della insorgenza di quegli ulteriori effetti collaterali del farmaco che furono quelli che avevano comportato lo stato di malattia della minore. La finalità terapeutica, ad avviso del giudicante, non escludeva pertanto il dolo eventuale dell’imputata la quale aveva agito accettando il rischio della insorgenza di questi ulteriori effetti negativi, come emergeva dalle dichiarazioni rese dalla stessa prevenuta, senza un correlativo apprezzabile beneficio in termini di cura della patologia di cui la minore soffriva. Tale consapevolezza rendeva la condotta dell’imputata del tutto incompatibile con la cd. colpa cosciente (art. 61 c.p., n. 3), che presuppone che l’agente abbia respinto il rischio di verificazione dell’evento non voluto, confidando nella propria capacità di controllare l’azione. Successivamente la Corte d’Appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava M.D. responsabile del reato di lesioni colpose gravi, così diversamente qualificata l’originaria imputazione. La Corte di merito sostanzialmente condivideva le argomentazioni del primo giudice con riferimento alla sussistenza della malattia, alla sua durata ed al nesso di causalità. Con riferimento al gravame proposto dalla parte civile, richiamando le conclusioni dei periti nominati dal Giudice e della stessa parte civile nonché le dichiarazioni rese da un oculista e dal medico di famiglia, sentiti quali testimoni, nonché la documentazione sanitaria in atti, i giudici di appello ritenevano l’insussistenza di una prova certa circa l’estensione del nesso di causalità agli altri disturbi elencati nella seconda parte del capo di imputazione. Dagli atti emergeva che, prima della cura a base di Topamax, erano state tentate altre e più ordinarie strade, quali cure dimagranti, anche con un precedente ricovero, con risultati non apprezzabili; la causa del disturbo alimentare della minore era di carattere psicologico, come emergeva dalle dichiarazioni della madre, la quale, per questo motivo, si era rivolta ad una specialista in psicologia; pur volendo ammettere che il rapporto costi/benefici nel caso in esame fosse sbilanciato a favore dei primi, non risultava provato, alla luce dei dati sopra indicati, il comportamento doloso del medico, caratterizzato cioè dalla deliberata volontà di cagionare lesioni, anche se conosciute come possibili effetti collaterali; emergeva, invece, un comportamento colposo della prevenuta, la quale non osservava imprudentemente e negligentemente il protocollo al quale l’uso off-label del topiramato era subordinato (adeguato consenso informato, con esatta indicazione dei possibili effetti negativi del farmaco ed attività di monitoraggio delle condizioni della minore, nella specie durante il trattamento). Infine la IV Sezione Penale della Corte di Cassazione chiudeva la vicenda pronunciando la sentenza n. 37077 del 24 giugno 2008 con cui veniva confermato quanto detto dalla Corte d’Appello di Firenze (“… Non è discutibile che l’attività medico-chirurgica, per essere legittima, presuppone il “consenso” del paziente, che non si identifica con quello di cui all’articolo 50 c.p., ma costituisce un presupposto di liceità del trattamento. Tuttavia, non è possibile ipotizzare la mancanza di consenso quale elemento della colpa, perché l’obbligo di acquisire il consenso informato non integra una regola cautelare la cui inosservanza influisce sulla colpevolezza. Pur se l’attività medico-chirurgica, per essere legittima, presuppone il “consenso informato” del paziente, è da escludere che dall’intervento effettuato in assenza di consenso o con un consenso prestato in modo invalido possa di norma farsi discendere la responsabilità del medico a titolo di lesioni volontarie ovvero, in caso di esito letale, a titolo di omicidio preterintenzionale. Ciò in quanto il sanitario il quale, salve situazioni anomale e distorte (nelle quali potrebbe ammettersi la configurabilità di tali reati: per esempio, nei casi in cui la morte consegua ad una mutilazione procurata in assenza di qualsiasi necessità o di menomazione inferta, con esito mortale, per scopi esclusivamente scientifici), si trova ad agire, magari erroneamente, ma pur sempre con una finalità curativa, che è concettualmente incompatibile con il dolo delle lesioni …”).

[5]Marino A. Farmacologia clinica e farmacoterapia. Napoli: Idelson; 1973.

[6]Secondo il Puccini “dalla sperimentazione clinica vera e propria si distingue la farmacovigilanza, che viene effettuata sulle specialità medicinali già registrate e ammesse alla libera prescrizione” (Puccini C., Istituzioni di Medicina Legale, Casa Editrice Ambrosiana, Milano 2003).

[7]Battaglia S. Grande dizionario della lingua italiana. Torino: Utet; 1967.

[8]art. 1 D. M. n° 744 del 1994.

[9]Ai sensi dell’art. 2 D. M. n° 744 del 1994° alla professionalità dei Dietisti appartengono i seguenti specifici atti di competenza: “a) organizza e coordina le attività specifiche relative all’alimentazione in generale e alla dietetica in particolare;b) collabora con gli organi preposti alla tutela dell’aspetto igienico sanitario del servizio di alimentazione;
c) elabora, formula ed attua le diete prescritte dal medico e ne controlla l’accettabilità da parte del paziente;d) collabora con altre figure al trattamento multidisciplinare dei disturbi del comportamento alimentare;e) studia ed elabora la composizione di razioni alimentari atte a soddisfare i bisogni nutrizionali di gruppi di popolazione e pianifica l’organizzazione dei servizi di alimentazione di comunità di sani e di malati; f) svolge attività didattico – educativa e di informazione finalizzate alla diffusione di principi di alimentazione corretta tale da consentire il recupero e il mantenimento di un buono stato di salute del singolo, di collettività e di gruppi di popolazione
”.

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DEL TESTO INTEGRALE (IN ITALIANO)

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I° e II° degree burns following a dual beauty treatment: analysis of a case debated in the Penal Court

FOSSATI F. , BONSIGNORE A. , CANDOSIN S. , MOLINELLI A. , VENTURA F. : Ustioni di I° e II° grado conseguenti a duplice trattamento estetico: analisi di un caso in ambito penale –

FOSSATI  F. (*),  BONSIGNORE  A. (*),  CANDOSIN  S. (*),  MOLINELLI A. (*), VENTURA F. (*)

 

Ustioni di I° e II° grado conseguenti a duplice trattamento estetico: analisi di un caso in ambito penale

([*]) Sezione Dipartimentale di Medicina Legale, Università degli Studi di Genova, via A. De      Toni 12 – 16132 Genova. Corresponding Author:  francesco.ventura@unige.it

 

Riassunto:

Gli Autori presentano il caso di una donna di 59 anni sottoposta ad un duplice trattamento estetico consistente in sottoposizione a raggi infrarossi a cosce, fianchi, addome e glutei. Successivamente, nella medesima giornata, la signora effettuava un trattamento depilatorio, per mezzo di ceretta a caldo, su cosce e gambe.

La sera stessa in cui la donna aveva eseguito i sopraccitati trattamenti, ella avvertiva intenso dolore alle gambe; per tale motivo, il giorno seguente, si recava al pronto soccorso dove diagnosticavano ustioni di I e II grado alle cosce ed alle ginocchia bilateralmente.

La Signora sporgeva querela nei confronti dell’estetista la quale veniva indagata per lesioni personali.

Il medico legale consulente del PM era chiamato a valutare se la lesività riportata fosse da ricondurre al trattamento a raggi infrarossi, a quello depilatorio o ad entrambi ed, in tal caso, se fossero conseguenti ad una condotta negligente, imprudente o imperita dell’operatore.

Sulla base delle risultanze derivanti dall’integrazione del dato clinico con quello circostanziale e della normativa vigente all’epoca dei fatti, pur riconoscendo una lesione personale lievissima derivante esclusivamente dal trattamento depilatorio, all’estetista non è stata riconosciuta alcuna condotta colposa. Quanto riportato dalla paziente, infatti, è stato considerato quale effetto indesiderato comunque possibile del trattamento depilatorio con ceretta a caldo.

 

Parole chiave: duplice trattamento estetico, terapia con raggi infrarossi, ceretta a caldo, ustioni, lesioni personali.

 

Abstract:

I° e II° degree burns following a dual beauty treatment: analysis of a case debated in the Penal Court
The authors present the case of a 59-year old woman who has been treated with a dual beauty procedure. Firstly, she underwent to an infrared therapy for cellulite at thighs, hips, abdomen and buttocks. Subsequently, the same day, she went through a depilatory treatment performed using hot wax stripping on her thighs and legs.

In the evening, the woman felt intense pain in the legs and for that reason, the day after, she went to the emergency room, where I and II degree burns to her thighs and knees were bilaterally diagnoses.

The woman leaned lawsuit against the beautician who was investigated for personal injuries. The forensic pathologist chosen as the Public Prosecutor Consultant was asked to evaluate if the alleged injuries were due to the infrared therapy, the hot wax stripping or both, and arising from a negligent, reckless or incompetent operator.

On the basis of clinical and circumstantial data, a slight personal injury arising solely from the depilatory treatment was diagnosed.

However, according to the legislation in force at the time of events, the beautician was not sentenced from a penal point of view. The burns, indeed, were considered as a possible side effect of  hair removal through hot wax stripping.

 

Key words: dual beauty treatment, infrared therapy, hot wax stripping, burns, personal injuries.

 

Il Caso

Gli Autori presentano un caso peritale penale inerente una donna di 59 anni  che, nella medesima giornata, presso un centro di bellezza, si sottoponeva ad un duplice trattamento estetico  consistente in “elettrostimolazione a raggi infrarossi e depilazione per mezzo di ceretta a caldo”.

Poche ore dopo il trattamento, nella notte,  la paziente accusava forti dolori alle gambe, che persistevano anche nei giorni seguenti e per tale motivo la stessa si  recava in pronto soccorso dove erano diagnosticati “esiti di ustione di I e II grado” alle cosce con prognosi di dieci giorni e prescrizione di culottes compressive.

Ritenendo che le lesioni riportate fossero la conseguenza dei trattamenti estetici eseguiti, la signora, presentava querela nei confronti dell’operatrice del centro estetico.

Il caso ha richiesto una valutazione medico-legale in merito ad un ipotesi di lesioni personali, conseguenti al duplice trattamento estetico.

 

Premessa

L’infrarosso terapia è una tecnica fisioterapica che sfrutta gli effetti biologici prodotti dai raggi infrarossi (RI) nei tessuti descritta in letteratura per la prima volta tra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’50. [1, 2].

I RI sono onde elettromagnetiche, che hanno una lunghezza  compresa tra 7.600 e 150.000 Ångström (Å). Sono presenti in natura (fanno parte delle radiazioni emesse dalla luce solare) e hanno numerose applicazioni in vari ambiti delle attività umane. Tra queste vi è anche l’utilizzo a scopo estetico, particolarmente quale anticellulite [3-6].

Nella pratica clinica  si utilizzano RI di tipo A la cui lunghezza d’onda (λ) è compresa da 7.600 a 14.000 Å [7].

Si tratta di una termoterapia che  utilizza lo stesso principio della Radarterapia. Nello specifico il calore viene prodotto da una lampada che va ad agire  sulla circolazione con vasodilatazione dei vasi, comportando un effetto trofico sui tessuti, mediante l’apporto di Ossigeno e sostanze nutritive. Questo trattamento ha, inoltre, un  effetto antalgico per la rimozione di sostanze algogene da tessuti patologici.

Per epilazione, invece, si intende l’asportazione del pelo in tutte le sue parti: stelo, bulbo e radice. La ceretta è il metodo più utilizzato, in quanto, maggiormente efficace ed economico. Consiste in una miscela di resine e cere scaldate, in un apposito contenitore, ad una temperatura superiore a 40° C.

La cera viene quindi applicata sulla pelle con un rullo appena e, quando questa si è solidificata e raffreddata, viene rimossa tramite strisce di cotone con un meccanismo a strappo [8].

In letteratura sono scarse le segnalazioni inerenti effetti collaterali conseguenti all’utilizzo di questa metodica depilatoria, con l’attenzione prevalentemente incentrata su altre tipologie di trattamento estetico quali la luce pulsata [9] e microonde [10].

 

Discussione

Nel caso di specie, in riferimento al trattamento a RI, la modalità di applicazione prevedeva il posizionamento di 4 elettrodi per coscia, 4 in addome e 4 sui glutei collegati ad un elettrostimolatore centrale.

Successivamente veniva posizionato un supporto a volta sovrastante  il lettino di trattamento, contenete più lampade  a RI, il cui fascio di luce veniva indirizzato verso le zone da trattare .

Tale metodo si caratterizza, per essere non invasivo e non doloroso.

La paziente peraltro, affermava di essersi già sottoposta diverse volte in passato, a questo tipo di trattamento, senza sviluppare conseguenze e/o complicanze.

Successivamente, la donna, eseguiva una ceretta a caldo, trattamento che può comportare l’instaurarsi di ustioni a seguito di temperature troppo elevate della cera, nonché di abrasioni, in seguito ad una troppo brusca rimozione della striscia di cotone.

In questa occasione, tuttavia, la donna manifestava ustioni di I e II grado, caratterizzate quindi, da eritema, edema e raccolte di essudato fra epidermide e derma.

Quello che il consulente  tecnico del Pubblico Ministero doveva valutare, pertanto, erano i postumi penalmente rilevanti. A distanza di due mesi, dall’evento, al momento della visita medico-legale, il CT del PM apprezzava una sostanziale restituito ad integrum (Fig. 1).

 

Fig.1

 

Non essendo ravvisabili esiti permanenti, nella valutazione dei postumi si doveva fare necessariamente riferimento al quadro clinico descritto in Pronto Soccorso. Quest’ultimo era indicativo per ustioni di I e II grado guaribili in un periodo di 10 giorni, classificabili pertanto, come lesioni personali lievissime.

Al fine di valutarne adeguatamente il nesso di causalità materiale, bisognava tuttavia, ricondurre tale lesività ad uno dei due trattamenti subiti o alla combinazione degli stessi. In tale analisi risultava dirimente il criterio topografico, in quanto la sede delle ustioni era compatibile con le regioni corporee sede di applicazione della cera a caldo e non della lampada ad infrarossi.

Per quanto riguardava le condotte messe in atto dall’estetista, invece, non erano ravvisabili elementi di negligenza, imprudenza ed imperizia, in quanto le ustioni di I e II, rientrano, come detto, tra le complicanze previste da questo tipo di trattamento depilatorio.

Inoltre, la combinazione delle due procedure e la messa in atto delle stesse rispettava le disposizioni di legge vigenti all’epoca (Legge 04/01/1990 n. 1 “Disciplina dell’ attività di estetista”) che disciplinano l’attività dell’estetista, peraltro tutt’oggi in vigore.

Di conseguenza non è stato possibile dimostrare in termini di certezza che un diverso comportamento dell’estetista avrebbe potuto evitare il verificarsi di una delle complicanze possibili.

Quindi, da un punto di vista penalistico, l’estetista è stata assolta, tuttavia, il caso in oggetto, lascia spazio ad un eventuale risarcimento del danno in termini di invalidità temporanea.

 

BIBLIOGRAFIA

 

  1. Bagghi Hn. Application of infra-red rays in the treatment of certain diseases. Antiseptic. 1949;46:363-5.
  2. Van der Plaats GJ. Introduction to infra-red therapy. Med Tech 1950;4:89-90.
  3. Paolillo FR, Borghi-Silva A, Parizotto NA, Kurachi C, Bagnato VS. New treatment of cellulite with infrared-LED illumination applied during high-intensity treadmill training. J Cosmet Laser Ther. 2011;13:166-71.
  4. Alexiades-Armenakas M. Laser and light-based treatment of cellulite. J Drugs Dermatol. 2007;6:83-4.
  5. Romero C, Caballero N, Herrero M, Ruíz R, Sadick NS, Trelles MA. Effects of cellulite treatment with RF, IR light, mechanical massage and suction treating one buttock with the contralateral as a control. J Cosmet Laser Ther. 2008;10:193-201.
  6. Wanitphakdeedecha R, Manuskiatti W. Treatment of cellulite with a bipolar radiofrequency, infrared heat, and pulsatile suction device: a pilot study. J Cosmet Dermatol. 2006;5:284-8.
  7. Alster TS, Tehrani M. Treatment of cellulite with optical devices: an overview with practical considerations. Lasers Surg Med. 2006;38:727-30.
  8. Turel-Ermertcan A, Sahin MT, Yurtman D, Kapulu N, Ozturkcan S. Inappropriate treatments at beauty centers: a case report of burns caused by hot wax stripping. J Dermatol. 2004;31:854-5.
  9. Adhoute H, Hamidou Z, Humbert P, Lyonnet C, Peuchot MA, Reygagne P, Reynier C, Rivoire S, Simoneau G, Toubel G. Randomized study of tolerance and efficacy of a home-use intense pulsed light (IPL) source compared to the hot-wax method. J Cosmet Dermatol. 2010;9:287-90.

10.Chang AC, Watson KM, Aston TL, Wagstaff MJ, Greenwood JE. Depilatory wax burns: experience and investigation. Eplasty. 2011;11:e25.

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DEL TESTO INTEGRALE (IN ITALIANO)

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PALMIERI L. : Lectio Magistralis

PALMIERI  L. (*)

 

Lectio Magistralis

 

Relazione alle VI Giornate Di Studio GISDI: “La medicina del piacere: tra  benessere e danno alla persona” . Sestri Levante (GE) 27 – 29 Ottobre 2011.

(*)Presidente del Gruppo Interdisciplinare di Studio Danno Iatrogeno (GISDI).

 

 

Riassunto:

Viene effettuata un’ ampia discussione sul tema della “terapia ludica”, la medicina del superfluo, introducendo il concetto del “diritto alla bellezza” e descrivendo il dibattito che su di esso si è sviluppato. Sono affrontati gli aspetti psicologici, psicopatologici e sociali dell’ argomento.

 

Abstract:

The “Unnecessary Medicine” and the “Right to be beautiful”  are discussed; the debate on these topics is described. Psychological, patohological and social issues are analyzed.

 

 

 

Chi si aspetta da questa mia lettura l’analisi del fenomeno della terapia ludica e i risvolti medico legali potrà certamente  rimanere deluso, non mi sono infatti dilungato ad affrontare sulla base della dottrina e delle sentenze e perché non anche  della personale esperienza  il tema che pur avrebbe ampi argomenti che giustificano del resto la scelta del tema di questo convegno, se vede impegnata la nostra disciplina dai tempi più remoti    iniziando dal dibattuto tema sull’obbligo dei mezzi o del risultato e se le specialistiche oggetto di dibattito in questo congresso costituiscono ampia parte del nostro impegno odierno per i contenziosi giudiziari, nei quali peraltro  il problema storico appare appena sfiorato, per non dire probabilmente addirittura dimenticato, per fare affiorare altri temi di dibattito sul comportamento del chirurgo, la liceità di interventi senza patologia in atto, il ricorso al benessere psichico per giustificarli e così via, gli errori tecnici e quelli ritenuti tali, per cui si sta a discutere sul centimetro in più della residua cicatrice o della sua disposizione un centimetro più su della linea del bikini , della asimmetria dei seni con alterazione del sinus, della deviazione dei capezzoli o della differenza da quanto programmato in previsione sulla lordosi della rinoplastica; egualmente del prosieguo della virilità grazie all’uso di farmaci ed al loro presumibile danno, o infine all’inverso problema di un  perfezionismo estetico che mostra di per sé l’innaturale dentatura della persona: ricordiamo a  tal proposito il processo intentato da una nota attrice all’odontoiatra che le aveva impiantato una protesi con elementi così perfetti  da essere di” di per sé innaturali. La notizia comparve sui giornali di qualche anno fa  e fece scalpore con il titolo “cita l’odontoiatra per la perfetta riuscita dell’intervento”. Egualmente mi sarei dovuto soffermare sui farmaci della felicità di remota memoria che  alterano la personalità del soggetto facendo vivere una irreale condizione di benessere a danno del proprio essere.

Sarebbe dovuto essere questa forse l’impostazione corretta per una lettura magistrale che inaugura un congresso  sul tema “medicina legale  e le terapie ludiche”. Ma, ispirato  da un altro dibattuto problema che attiene alla economia medicale piuttosto che alla medicina legale anche se questa vi rientra solo a posteriori allorché deve pronunciarsi sul motivo di correzioni estetiche pretestate per patologie in pectore o in atto, e prendendo spunto dai dibattiti che nei paesi anglosassoni  sempre più numerosi vengono posti all’attenzione dell’opinione pubblica, mi soffermerò su di un tema scottante e di attualità: sussiste o meno un diritto alla bellezza?

 

L’argomento è stato del tutto recentemente sottoposto alla opinione pubblica dai media che hanno riportato, e diversamente commentato, i risultati di indagini svolte presso gli stati Uniti  oggetto di un ulteriore confronto in Gran Bretagna ove, come forse a voi già noto, si è costituita sotto la spinta di una  nota attrice la lega contro la chirurgia estetica.

E’ con questo spirito che ho impostato la lettura che il presidente del congresso  mi ha acconsentito e che spero  riuscirà a  tenere desta la vostra attenzione.

In Italia l’argomento è stato dibattuto del tutto recentemente a Cagliari  con l’intervento di opinionisti e sociologi, personalità della cultura  per dibattere il dilemma  se sussiste o meno un diritto alla bellezza.

Il dilemma nasce dalla affermazione di Pitanguay che in Brasile aveva stimolato ed attuato l’apertura di centri di assistenza estetica finalizzati ai non abbienti, convinto che la bellezza, o meglio la non  bruttezza, fosse divenuto un bene patrimoniale, dal momento che è uno dei principali elementi di cui  il mercato del lavoro non sa fare a meno nella scelta del personale prevalentemente femminile da assumere. Questa realtà,  ritenuta assai concreta in Brasile,  trova sostanziale conferma nel mondo ed è su questo tema che sempre più numerosi  antropologi, psicologi e sociologi con diversa impostazione e rispettive conclusioni si sono attivati a  dibattere il tema.

Alla  domanda posta dall’antropologo Alexander Edmonds ad una non giovanissima  colf brasiliana del perché avesse rifatto il seno, questa rispose “non lo faccio certo per esibire il mio corpo, ma per sentirmi meglio, oltretutto non si è trattato di una semplice vanità, ma di una vanità necessaria”; ella innescava  un nuovo concetto  su cui sociologi e antropologi si sono impegnati a discutere; dobbiamo quindi  a questa colf l’inserimento nel lessico sociologico del concetto di vanità necessaria.

 

E così il lavoro dell’antropologo Edmonds, docente presso l’Università di Amsterdam, “bellezza, sesso e chirurgia estetica in Brasile”, viene subito recensito  dal New York Times nell’ agosto di quest’anno, risvegliando l’interesse del mondo accademico finendo con l’esaltazione del mantra ossessivo di Pitanguay che, ora definito  psicologo con il bisturi, ora  filosofo della plastica, insegna ai suoi numerosissimi allievi sparsi in tutto il mondo che anche il povero ha diritto alla bellezza; le motivazioni che adduce, portate alla esasperazione portano l’autore ad affermare che “ se le cose stanno così dobbiamo considerare la bellezza un diritto e di conseguenza, così come l’istruzione, l’educazione  e la salute, ha bisogno del supporto delle istituzioni pubbliche”.

 

A dimostrare la validità dell’ affermazione dell’Edmonds, la rivista Times ha  finanziato una ricerca ad uno statistico per esaminare quanto incide nelle diverse buste paga l’essere attraenti, con il risultato di vedere l’aspetto esteriore una validissima arma per salire nella scala sociale nei paesi non solo sudamericani, ma in tutto il territorio statunitense. Da queste risultanze la nota sociologa Lea Melandri, esponente di spicco del movimento femminista degli anni ottanta,e fondatrice della libera università delle donne, ritiene che la pubblicità è a base del problema, facendo divenire la bellezza un capitale, “ moneta importante per farsi strada, così necessaria, al punto che qualcuno parla di diritto; ma ciò ella afferma non è la causa bensì l’effetto di una prepotenza, quella della disuguaglianza e del privilegio, di un pregiudizio mai spento nei confronti delle donne come oggetto sessuale”. Sembra quasi l’ effetto di una sottile distinzione ontologica fra uomini e donne propria dell’essere e/o dell’apparire , come se il genere femminile faccia parte naturale di quella sottocategoria che deve per forza interessarsi della propria immagine.

Di avviso contrario è la filosofa Michela Marzano che in un saggio pubblicato da Mondadori spiega ( sii bella e stai zitta )  “ Già l’espressione diritto alla bellezza mi fa sorridere e mi innervosisce , in quanto da una parte distoglie dai veri diritti primari ben lungi dall’essere stati conseguiti e che nelle realtà contestuali sono assai in pericolo, dall’altra manipola lo stesso concetto di diritto, evoluzioni del dovere frutto della dittatura dell’apparenza “.  Non è un caso, pertanto,  che nei curricula per inserimento lavorativo soprattutto la donna adduca il proprio aspetto come elemento di investimento, motivato dalla convinzione che l’apparenza superi di gran lunga l’essere. Ci si domanda quindi se questo non sia un “ Impegno categorico che toglie la libertà di essere come si è”. Dalla risposta affermativa a questo quesito si passa ad un secondo quesito che diverrebbe assioma, “ può considerarsi  un diritto  un principio che annulla una  libertà? “  Così , il filosofo cagliaritano Remo Rodei rifacendosi alla affermazione della Marzano,  non esclude a priori l’ipotesi di un futuro diritto ad essere belli, e si congratula con il Chirurgo plastico sardo Santoni Rugiu che,  facendo proprio  il mantra di Pitanguay , si attiva anche nei confronti dei bisognosi trascorrendo periodicamente lunghi soggiorni in Africa per operare vittime delle mutilazioni facciali, affermando il principio che sia giusto correggere la lotteria naturale che fa nascere uno bello e l’altro brutto, con un labbro leporino o un naso a sella; ma contestualmente ritenendo scorretta ed immotivata l’impostazione del pensiero che porta a parlare di un diritto alla bellezza come presupposto di una vanità necessaria, intendendo per questo il desiderio di chi si piega al consumismo esasperato di una società marcia che si basa su imposizioni innaturali del non accettare la propria immagine,  ovvero chi non accetta il passare del tempo e si trasforma in una vetrina ambulante, priva di ogni consistenza , vale a dire  la negazione di sé stessi , soggetti che egli definisce “una maschera”.

 

Si discute a questo punto sul concetto di diritto che, esasperato, fa nascere il dubbio  che quanto riportato nella costituzione innovativa promulgata da Khomeini nel 1979 e che contemplava il diritto ad essere felici potesse essere effettivamente realizzato, principio del resto presentato del tutto recentemente come emendamento nella costituzione americana.

Continuando la rassegna di quanto ho letto, riporto come del tutto recentemente Carla Barbera in un saggio pubblicato dalla casa editrice il Melangolo ( Sex and the city e la filosofia ) si sofferma ad analizzare il concetto innovativo di vanità necessaria che, pur inquadrandolo in una esigenza e non in un  diritto, la vede possibilista sull’ipotesi che la bellezza possa diventare un diritto “ nella misura peraltro in cui può aiutare gli individui a stare meglio e nella misura in cui i diritti umani primari fossero tutti soddisfatti”. Ella non entra poi, nel merito del concetto di diritto – che, in quanto tale connette al concetto di libertà -, aprendo viceversa un altro aspetto del problema ben più ampio, infatti sposta l’attenzione sul problema della identità.

 

Nasce spontanea una domanda dopo aver letto il saggio della Barbera. Chi diventiamo dopo un intervento di chirurgia plastica a finalità estetica, veramente cambiamo?  La risposta viene data da John Loke, filosofo Olandese del 700 che si domandava se lo spirito di un uomo umile e modesto entrasse nel corpo di un uomo ricco ed importante costretto a prendere decisioni rilevanti,  queste sarebbero il frutto della personalità del prima o del dopo?

Chi si sottopone ad un intervento di chirurgia plastica deve essere  consapevole che la sua identità non cambierà e resterà sempre il risultato del suo essere, frutto di una costituzione di base e delle esperienze vissute;  se non si sono vinte le insicurezze  nel prima, queste non verranno certo eliminate dopo. E’quanto molto sanno i medici legali che spesso si ritrovano innanzi a rifiuti di un  risultato pur corrispondente alle attese programmate.

 

La psicanalista napoletana,  Adele Nunziante Cesaro  docente di psicologia clinica all’università di napoli Federico II, nel contesto di un dibattito a cui ho partecipato direttamente condivideva l’ipotesi da me prospettata di un inquadramento del problema con il ricorso al diritto alla salute, ed in parte negando l’affermazione precedente,si adegua al “ se  c’è un diritto alla salute e per essa anche alla salute mentale, diviene legittimo un diritto alla bellezza, in quanto sentirsi belli conduce ad un livello di autostima più alto e ciò può rendere felici”.

 

E’ bene allora soffermarci un momento sul concetto di autostima  che è un processo individuale  che ha a che fare con la costituzione della identità personale e non certamente con la propria immagine innanzi allo specchio, essa si forma su valori concettuali ben più alti, si basa sulle esperienze vissute e sul modo di superare le avversità come il dolore, i propri limiti , la separazione, la morte e, poiché siamo nel tema, l’invecchiamento.

Si rischia di condividere la non certo apprezzabile concezione di una società edonistica che, come non vuole accettare la morte naturale  cercando un comunque responsabile all’evento luttuoso, così non vuole accettare ogni lato negativo della propria esistenza, ammesso che il tempo che passa sia da considerare un limite al proprio essere.

 

Supporta il concetto di una autostima venuta meno Lorella Zanardo che nel saggio “ il corpo delle donne” edito dalla Feltrinelli,  parla di “corpi occultati” dalla chirurgia estetica e denuncia il dovere nascondere le rughe proprie come un sopruso di una società che non vive più nella dimensione reale di un tempo che scorre, vittima di una fatuità che, priva di valori essenziali, assegna all’immagine la propria consistenza.

“La nostra faccia, dal verbo fare,  è l’espressione della nostra storia, delle nostre esperienze, del nostro vissuto, cambiandola artificialmente cambia il  nostro messaggio quello che il nostro viso comunica, e diviene un falso, siamo certi che vogliamo questo?”

Una semplice considerazione porta a rilevare come , di norma non ci si chiede: « Chi sono io? ». La propria identità è data per scontata. Ognuno di noi porta documenti  di identificazione e, a livello conscio, sa chi è. Tuttavia spesso nell’inconscio  si è in conflitto con se stessi, insicuri e l’insicurezza riflette il problema di identità. Quando l’insoddisfazione si muta in prostrazione e l’insicurezza domina l’esistenza è il momento in cui si finisce col chiedersi  « Chi sono io? » : è il momento che segna come la facciata esterna, vale a dire le sembianze e il ruolo che abbiamo nel contesto sociale e che ci servono  da identità si sta sgretolando.

Il necessario ricorso ad una facciata o l’adozione di un RUOLO per avere una identità denota l’evidente scissione tra l’io e il corpo che può condurre alla mancata identificazione di se stessi, fondamento di una vita personale. Ma, per sapere chi siamo dobbiamo essere consapevoli di ciò che sentiamo, non bastano l’espressione del nostro viso, il portamento, il modo in cui ci muoviamo. Quando l’immagine dell’io si rivela vuota e priva di  significato, l’identità basata su un’immagine di sé o su un ruolo non dà più soddisfazione. Allo scoraggiamento segue la depressione, e, invece di lottare alla ricerca della identità perduta, finiamo con l’attribuire al decadimento fisico la causa del  malessere e crediamo che la terapia sia nel maquillage plastico.

Del resto il tema centrale delle opere di  Fromm non è forse  L’immagine è una concezione mentale che, sovrapposta all’essere fisico, riduce l’esistenza corporea a un ruolo sussidiario? Il corpo diventa uno strumento della volontà al servizio dell’immagine. L’individuo è alienato dalla realtà del suo corpo.

La medicina legale è solita differenziare i concetti  di uomo e persona, solo apparentemente sinonimi, ma invero molto diversi: per uomo si intende un corpo materiale vivente, il bios ;  la persona invece è l’uomo con la sua esperienza, con la sua coscienza, con la sua memoria,  capace di  credere nella sua identità tale da differenziarsi da tutti gli altri, così che come afferma Locke «fin dove questa coscienza può essere estesa indietro ai  pensieri del passato, fin lì giunge l’identità di quella persona»

Ma il mito della bellezza oggi viene presentato in modo alquanto distorto, basato esclusivamente sul versante fisico senza tener conto che una persona può essere considerata “bella”  non necessariamente  per le sue qualità estetiche ma per altri valori, il suo modo di vivere, la personalità, la simpatia, doti personali, capacità ed attitudini. Il rischio pertanto di chi ricorre alla chirurgia plastica per raggiungere un’ideale di bellezza artificiale, è quello di ritrovarsi in un corpo estraneo, in un corpo che non riflette più l’identità  ormai  perduta.
Non vi è dubbio che il tentativo di migliorare il proprio aspetto fisico nasconde spesso bisogni più profondi della persona e relativi alla autostima, con ansia ed insicurezza con se stessi e con il mondo circostante facendo in modo di sopravvalutare l’intervento chirurgico che diviene l’unica terapia a cui riucorrere. Se il conflitto interiore che ne sta alla base non viene affrontato adeguatamente, alla fine si arriva ad essere chi non si è, ovvero a guardare allo specchio un corpo “perfetto” ma senza volto e dunque senza anima, perché privo di se stessi, con il risultato di una maggiore sofferenza interna.

Dalla  lettura del saggio  “Il corpo delle donne” di Lorella Zanardi (2009), presentato del tutto recentemente al Parlamento Europeo, si traggono spunti di riflessione aggiuntivi per una diversa interpretazione, laddove l’ autrice afferma che chi si adegua all’andazzo, mostra di voler fra propri  i desideri e le richieste di un mondo esterno, catturato dai messaggi che arrivano dai media, bisogna domandarsi se ciò è patologia o meno. La Zanardo scrive “Questi messaggi esprimono un immaginario maschile e le donne, mediante l’omologazione agli stereotipi sociali, finiscono con il soddisfare questi desideri, non i propri, che forse neanche conoscono”.

Si ricade sul tema della ricerca della propria identità nelle adolescenti e nelle più giovani e contestualmente  sulla negazione del tempo che passa  per le donne mature; passando  al sesso maschile, non regge certo il principio della vanità necessaria che in una qualche misura può giustificarlo per le donne, in questi casi è sostenuto dal narcisismo, che comunque è pur sempre un disturbo di personalità.

L’adolescenza è il momento in cui i ragazzi cominciano a rapportarsi con il mondo esterno, momento di  fisiologica fragilità che porta il giovane a scelte condivise dal mondo esterno che gli garantiscono sicurezza e appartenenza.

Sono di solito i modelli forniti dal gruppo di amici, dai coetanei ma ancor più dai media, dalla pubblicità Tutti gli  spettacoli di intrattenimento televisivi offrono una immagine femminile svilita, mortificata, priva di individualità e di spessore soggettivo, ma attraente fisicamente. Il “bisogno” di essere riconosciuti ed accettati dagli altri porta l’adolescente a perdere quell’equilibrio tra mente e corpo necessario per riconoscersi, idealizzando un modello di perfezione presupposto di un accanimento verso interventi estetici, che rischiano assai spesso  di non essere mai soddisfacenti.

Nelle donne anziane il motivo è il rifiuto del tempo che passa che rende difficile l’elaborazione della perdita della giovinezza e l’accettazione di non poter recuperare la fisiologica bellezza dell’età giovanile.

Attraverso il ricorso alla chirurgia estetica si tenta di cancellare i segni del tempo che passa, annullando la propria identità e la propria storia, e svalutando la propria  stessa esistenza. Si può parlare di patologia?

Patologico è  il risultato, spesso catastrofico, con sembianze grottesche,  umilianti, facce di gomma, seni prominenti su corpi sorretti a malapena da due stampelle, immagini di  corpi vuoti, sensazioni di e paura di un nulla, dietro quella fittizia bellezza di plastica.

Alex  Kuzhinski, del New York Times, in un  libro inchiesta “la bella e la bestia” analizzando il fenomeno di quella che definisce “la comune ossessione che porta in media a spendere quindici milioni di dollari  annui per  cambiare l’aspetto ai vip  e alle  segretarie di tutta l’America, innanzi  all’apparente calo di questa cifra nel biennio antecedente il  2010, si poneva la domanda se effettivamente sia finita la corsa al viso e al corpo perfetto, pur segnalando per la prima volta l’incremento del nel sesso maschile. Secondo Kuzhinski avrebbe fatto presa anche in America la crociata che in  Inghilterra l’attrice Kate Winslet porta avanti; questa, dopo essersi sottoposta anche per desiderio dei genitori a interventi a catena per divenire bellissima, ha fondato l’ anticosmetic surgery league una lega contro la chirurgia estetica e plastica, affermando “Va contro la mia morale … sono un’attrice e non voglio bloccare per sempre l’espressione del mio volto”. La lega che fa continui proseliti, veniva ritenuta una delle cause della recessione degli ultimi due anni durante i quali peraltro nei soli Stati Uniti nel 2010 vennero comunque eseguiti sedici milioni di interventi estetici.

Non mi soffermo sui dati statistici che peraltro sono necessariamente incompleti, segnalando solo che Il trend è comunque sempre in crescita, con incremento del fenomeno  fra i quindici ed i diciannove anni, con dati peraltro privi di quanto viene praticato nei laboratori privati, i cui responsabili omettono le registrazioni,

l’incremento sui minori, da qualche tempo ha portato  i  media sempre più numerosi ad inneggiare alla iniziativa della Kate Winslet in analogia al costante pensiero di Natalia Aspesi  “ la gente che appare troppo perfetta non è certamente sexy e, quando particolarmente bella,  comunque dà l’immagine di falsità”.

Diritto alla bellezza dunque che troverebbe  sostegno e liceità anche storica ed etica se si ricorda che Il papiro di Edwin Smith, datato 3000 a.C.,  contiene la prima descrizione della chirurgia di un trauma facciale, con fratture nasali e della mandibola. È il documento più antico da cui nasce una storia che testimonia una fase terapeutica della disciplina. Così vediamo la prima ricostruzione di nasi, orecchie e labbra nei testi Indù datati circa 400 a. C. quando andava di moda tagliare il naso e le orecchie al nemico e ai condannati, un medico Indù, Sushrata, descrive nella sua enciclopedia Samhita, la ricostruzione dell’orecchio con pelle prelevata dalla guancia e la ricostruzione del naso detta ancora oggi “metodo indù”. Sempre ai medici indù si deve il trapianto di pelle prelevata dalle natiche: tecnica che predaterebbe di oltre 2 millenni il primo trapianto di pelle descritto da Jacques-Louis Reverdin, chirurgo svizzero, nel 1869. Nel 4 secolo a. C. Alessandro Magno il Macedone invase l’India, e importò queste tecniche nel Mediterraneo; nel 1 secolo d.C. il medico romano Aulo Cornelio Celso descrisse la riparazione della mutilazione delle labbra, delle orecchie, del naso nel suo De Medicina. E nel 4 secolo d. C. Oribasio, medico di corte bizantino, nella sua Synagogue Medicae ( enciclopedia di 70 volumi), dedicò due capitoli alla ricostruzione dei difetti della faccia. Contemporanea è la correzione del labbro leporino, che a partire dal 4° secolo veniva praticata in Cina dai medici della dinastia Chin.

In Italia due famiglie di barbieri,  una sicula  l’altra calabra, apportarono modifiche alle tecniche di ricostruzione nasale  nel quindicesimo secolo, Le descrive Alexander Benedictus, docente all’Università di Padova.

Potrei dilungarmi con aneddoti e storia  ,ma mi limito a ricordare   che nel 1818, il tedesco Carl Von Graefe, considerato il miglior chirurgo d’Europa pubblicò “Rhinoplastik” tanto da essere considerato padre della chirurgia plastica moderna.

La ricostruzione completa del naso risale al 1892 quando Robert Weir utilizzò lo sterno d’anatra, e venne coniato il vocabolo “rinomania”, cioè  ricerca patologica del perfezionismo chirurgico dei pazienti. «Un comportamento che sicuramente persiste tutt’ora ed è uno dei problemi più importanti della chirurgia”.

 

Sul piano etico dal diciottesimo secolo la chirurgia plastica ha avuto un ulteriore sviluppo grazie alla necessità di porre rimedio alle ferite belliche, limitata solitamente alle ferite del volto, chirurgia predittiva a quella specialistica maxillo-facciale, oggi disciplina ben codificata.

 

E’ con il francese Suzanne Noel e l’americano C.C. Miller che la chirurgia estetica inizia a delinearsi come branca chirurgica autonoma.

Il suo sdoganamento era vicino al punto che in Germania Vincent Czerny sosteneva il solo scopo estetico essere sufficiente a giustificare un intervento chirurgico.

 

Fra il 1920 e il 1940 la chirurgia plastica era stata accettata anche dall’università con un primo corso universitario nel 1924, al John Hopkins Hospital.

Se, la prima mastoplastica con tessuto prelevato dalla stessa paziente fu effettuata da Czerny nel 1895, prelevando un lipoma dalla schiena per correggere una asimmetria del seno, alla fine del 19° secolo iniziò l’era  dei materiali sintetici. Nel 1899 si tentò con la paraffina, poi con cera d’api, oli vegetali ed altro, pratiche tutte dal 1960 proibita per i danni che arrecavano alle pazienti. Si passò alle protesi, le prime erano d’avorio o vetro, subito abbandonate perché il seno sembrava poco naturale. Poi fu la volta di materiali spugnosi, come l’Ivalon, che poteva essere modellato, ma col tempo si restringevano, si indurivano e si distorcevano. Gli impianti moderni, a base di silicone, iniziarono nel 1963; ben più tardiva la liposuzione .

Per vero, già il Tagliacozzi, chirurgo bolognese della metà del 1500, poneva interrogativi etici chiedendosi se la medicina avesse il compito solo di curare, o anche di migliorare parti del corpo. Rispondendo che interventi di questo genere ridavano integrità ad organi che la natura stessa aveva fornito, reintegrando nuovamente le funzioni a loro attribuite. Siamo ovviamente, innanzi a quella chirurgia plastica ricostruttiva che non ha bisogno di ricorrere al diritto alla bellezza.

E la chiesa cattolica come si pone innanzi a questo dilagante fenomeno? Del tutto recentemente si è pronunciata sulla rivista “The Rock”, che non è una rivista musicale, ma la più rilevante rivista cattolica americana laddove si legge che la chiesa non si è occupata di questo problema nel suo magistero, ma dalla teologia morale si può trarre la conclusione che  La chirurgia plastica sembrerebbe permessa anche senza significativi effetti terapeutici, purchè non procuri danno a un bene più prezioso.

Sulla differenza fra pura estetica o effetto terapeutico viene in mente la Paltrof,  attrice americana, che  parafrasando San Filippo Neri riconosce la chirurgia estetica pura vanità, ma subito dopo “rifiuto il silicone, il botox o altri trucchi, però una correzione al seno dopo l’allattamento perché no?”

Le problematiche etiche aumentano allorché la  vanità necessaria viene trasferita agli interventi miranti ad una attrattiva  sessuale, si argomenta sulla liceità morale di un incremento del 60% nella sola Londra degli interventi sul fondo schiena dopo il matrimonio dell’anno, stimolati dalla sorella Pippa, definita sorella posteriore, anagraficamente si intende.

Helen Mirren che nel cinema ha rivestito i panni della regina Elisabetta a 66 anni, pur non avendo alcun rigetto per la chirurgia plastica vieterebbe alle ragazzine di modificare il loro aspetto in base al principio della “purezza fantastica della bellezza giovanile”. Ed ancora lady Gaga che ha fatto del suo apparire il suo essere e che  si scaglia contro la chirurgia plastica esclamando “il bisturi promuove insicurezza”. Britney Spears spende quindicimila dollari per una mastoplastica addittiva con il risultato che le ragazzine americane che ricorrono a ritocchi al seno sono oltre mezzo milione: di qui Julia Roberts, a 43 anni Pretty Woman, si scaglia contro le dive dei reality scelte sempre fra le più vistose,  affermando  il segreto della bellezza è la felicità interiore.

Certo che l’ossessione per il fisico è divenuta una patologia psichica che viene definita body dismorphic disorder ( BDD ) ed in America raggiunge già il tre per cento della popolazione. Che fare, negare il bisturi anche a loro? Le realtà sono profondamente diverse perché nella cultura americana non vi è l’immagine della senescenza, mentre questa è presente in quella inglese anche nel cinema. Judy dank ed Helen Mirren.

 

La lega anti chirurgia plastica ha trovato in Inghilterra proseliti da parte di molte attrici famose  con lo slogan “Tante donne che si sono sottoposte ai ferri chirurgici mostrano i segni dei ferri stessi , al punto da essere testimoni di un messaggio ben più preoccupante per la donna stessa : sono tanto vecchia da essermi dovuta sottoporre ad interventi per eliminare le borse sotto gli occhi, gonfiare le labbra e tirare la faccia”, ed allora appare più  opportuno il ricorso ad uno psicologo.

 

Ma la legge dell’estetica “sembra, quindi è” regge.

 

Sull’argomento si è inserita Natalia Aspesi che del tutto recentemente su Repubblica in un articolo che commentava la lega antichirurgia estetica affermava  “quando l’età avanza non è che dandoci un taglio diverremo più sani e più belli”.

 

Il dibattito  ha coinvolto quindi artisti e medici, psicologi e sociologi, filosofi  e femministe, perfino pastori e parroci  stimolati  dal fatto che non sono più i cinquantenni a recarsi dal chirurgo ma sempre più i giovanissimi e i maschi, che cercano di  stare bene con sé stessi, cosa che sperano di ottenere con un’artefatta apparente giovinezza estetica, disumanizzante e tutta eguale. Ne consegue che inesorabilmente perdenti, si cerca la ricostruzione della propria identità anche nell’uomo, così, al comprensibile rilasciamento maschile intorno ai quaranta anni sino agli anni 90 per il rallentamento del metabolismo,  la calvizie e l’appesantimento ai fianchi, si contrappone oggi un ricorso al bisturi per maquillage facciale o addominale, ed anche  interventi sui posteriori nelle fasce di età che le statistiche rilevano sempre più alta fra i nati fra  il 70 e l’80  ; generazione che non si identifica con il ricordo dei genitori perché chi ha oggi oltre quaranta anni  appartiene alla prima generazione vivendo una fascia di età che non è più la mezza età di ieri, ma il proseguire di una agonica gioventù che impone anche una immagine adeguata, dovendosi inventare una nuova identità; Nel film Crazy stupid love una ragazza che vede per la prima volta il torace di un palestrato  quarantenne dice ammirata “ sembri proprio fotoshoppato”.

Si cerca quindi una nuova identità reinventandosi una diversa età biologica scegliendo partners sempre più giovani cercando di non apparire patetici , aggettivo che i più lucidi e sensibili scoprono dopo i quaranta anni, ma sconosciuto ad una minoranza di uomini che arriva a una vecchiaia discotecara fuori tempo massimo e pluritricotrapiantata senza farci alcun caso. In altre parole si deve  riformulare non solo l’aspetto ma anche l’immagine interiore che essi hanno di sé stessi e non già quella che gli altri hanno di lui. Nuova immagine, per prolungare una apparente gioventù che stimola anche all’uso di farmaci per cercare di mantenere le prestazioni che la neoristrutturata età imporrebbe.  Lo specchio è il vero arbitro del nostro essere, non facciamo in modo che esso diventi bugiardo con noi stessi; possiamo sempre romperlo, ma ogni frammento continuerà a mentirci.

 

Riassumendo quanto sin qui letto si pone il problema se questa chirurgia è terapia, o non piuttosto vanità? e se è questa ultima la causa del suo essere, può intendersi vanità necessaria solo ai fini di una sua eventuale redditualità, ovvero deve intendersi terapia di una patologia psichica che merita di essere trattata diversamente?

A questo punto, come trattamento psico-terapeutico deve ricadere fra le prestazioni previste dall’assistenza offerta dalle istituzioni?

Esistono i presupposti etici a sostegno di questi trattamenti? E non parlo qui degli aspetti deontologici che pur dovrebbero improntare l’operato dei chirurghi se non per quel colloquio preliminare teso ad informare le difficoltà solite ad  accettarsi nella nuova identità esterna, non cambiando le insicurezze interne.

Riferendosi alle immagini di attrici sempre apparentemente giovani, il regista Philipe Garrel così si è espresso “con il bisturi cerchiamo l’eternità, ma questo non serve a niente perché noi restiamo mortali”. Corriere della sera di sabato 27 agosto ’11 Repubblica del 18 agosto

 

Nel 1928 Suzanne Noel pubblicò “La chirurgie esthètique. Son role social”. In esso la scrittrice sottolineava l’importanza, tanto per le donne quanto per gli uomini, della chirurgia estetica in rapporto alle prospettive lavorative. Nel 1927 Charles Conrad Miller pubblicò la prima rivista americana del settore, la “Review of Plastic and Aesthetic Surgery”che, oltre a prospettare la chirurgia estetica per migliorare esteticamente le sembianze, la interpretava  nell’America a cavallo dei secoli, come possibilità di assimilazione sociale. Numerose erano infatti le minoranze etniche presenti nel territorio, le quali vedevano nella propria diversità motivo di discriminazione razziale; del resto più recentemente  molti ebrei, costretti a vivere in un clima di anti-semitismo, vedendo nella forma del naso un tratto fisiognomico caratteristico, fecero ricorso a interventi di rinoplastica, di qui, Jaques joesph, chirurgo ebraico, rendendosi conto che, affinché l’esito fosse quello richiesto, era necessario eliminare ogni traccia dell’intervento, sviluppò una tecnica di ricostruzione per via endonasale, intervento che riscosse molto successo, tale da essere richiesto per puri fini estetici. Se per gli uomini in particolare un fattore di disagio era creato dal naso, le donne si misuravano su un’altra parte del corpo :il seno, da sempre considerato strumento di seduzione, con il passare del tempo e con mode che esaltavano sempre di più la figura femminile, le esigenze mutavano da un fine discriminante razziale ad una finalità estetica,  che inizialmente riteneva ideale per la donna del nuovo millennio  un seno piccolo.

 

‘diritto alla bellezza dunque, diritto nuovo? Tra i diritti fondamentali dell’essere umano finora si ricordano quello alla libertà individuale, alla vita, all’autodeterminazione, al giusto processo, a un’esistenza dignitosa, alla libertà religiosa, alla privacy ed altro, ma del diritto alla bellezza  non si era mai parlato se non come diritto a vivere in un ambiente consono alle esigenze dell’uomo anche sotto il profilo estetico e naturale.

Nella filosofia moderna e contemporanea La bellezza appartiene a tutte le culture e nessuno ha il diritto di imporne un modello piuttosto che un altro, anche se gli effetti omologanti dei processi di globalizzazione sembrano ancora voler imporre la bellezza della pelle bianca e delle acconciature occidentali.

Il fenomeno riguarda soprattutto le persone di pelle scura che, per motivi sociali e culturali, utilizzano prodotti schiarenti al fine di diminuire la tonalità del colore nero della propria pelle.

 

Infatti l’ideale di bellezza, fin dall’Antica Grecia si è identificato nel colore bianco e nei capelli biondi e solo dalla metà del secolo scorso i movimenti di liberazione femminile africani e afroamericani hanno tentato di rilanciare non sempre con successo, lo slogan “Black is beautiful”.

Ritornando al mantra di Pitanguey anche il povero ha diritto a essere bellissimo (di Elvira Serra ),ci troviamo a dover naturalisticamente sostenere che le istituzioni  dovrebbero essere coinvolte; ma ci si deve domandare quanto incide la pressione sociale e quanto l’insicurezza umana.

L’estate è la stagione della corporeità, il trionfo dell’estetica, dell’apparire, del mostrarsi e del guardare. C’è un’antropologia delle visione, del colpo d’occhio, della variazione cromatica tra abbronzature, dei confronti volumetrici tra curve (sia maschili che femminili) che raggiunge i livelli più alti di tutto l’anno, definita Antropologia stagionale; e così In estate esplode il business dei concorsi di bellezza, dove schiere di giovanissime esaltano la civiltà del consumismo, additata come quella delle apparenze, dove il famoso valore di come si appare sembra non lasci scampo al valore di come si sarebbe … diatribe etico-filosofiche, certo, ma molto interessanti anche da una prospettiva antropologica: dopotutto si ha a che fare con corpi e valori, sistemi di comunicazione e di potere, conflitti fra prospettive educative, fra ciò che si ritiene buono e ciò che si ritiene meno buono…. è antropologia culturale pubblica !

L’antropologia insegna che non c’è niente di più culturale che il modo in cui una società, una cultura, crea, costruisce, valuta, promuove e diffonde ciò che ritiene essere “bello”. E, con bello, molto spesso buono, giusto, opportuno, ottimale, ideale e, alla fine, normale. Ma come riflettere attorno a queste espressioni culturali, che diventano ovviamente economiche, politiche, ideologiche e alla fine, anche biologiche?

Ben si innesta quindi la  provocazione  di istituire un “diritto alla bellezza” al pari del diritto all’istruzione, alla salute. Il ragionamento è semplice e, dopo un disorientamento iniziale, pare persino filare. Questa la catena logica:

1) la “bellezza” è un capitale che Catherine Hakim (LSE), partendo da Bourdieu e la sua distinzione dei capitali (individuale, umano, sociale) , ha definito “capitale erotico“, cioè potenzialità di stimolare negli altri sensazioni di piacere, di soddisfacimento sessuale. Innumerevoli studi correlano positivamente la variabile “bellezza” con la progressione di carriera, sia per uomini che donne (permettendo quindi l’accumulo di altro capitale);

2) la “bellezza” è all’origine un capitale grezzo e a costo zero (di natura, direbbe Platone), ma poi necessita di investimenti per essere mantenuta. Molti, però, di questo capitale non sono proprio dotati, e partono pertanto con un capitale individuale compromesso fin dall’inizio;

3) la “bellezza” può essere aumentata grazie alla tecnologia e alla scienza medica.

Da qui la domanda: se attraverso queste tecnologie è possibile rendere una persona più bella, e di conseguenza più sicura di sè, più propensa alle relazioni, più accettata socialmente, più efficiente nel progredire di carriera e, alla fine, più felice, perchè non si dovrebbe parlare di un diritto? Le istituzioni pubbliche, insomma, dovrebbero farsi carico di tutelare e esaudire questo diritto delle persone di diventare più belle per essere più felici. Quindi, diritto alla bellezza uguale a diritto all’istruzione? Capitale erotico intercambiabile con capitale cognitivo? Il tutto finanziato con soldi pubblici?

Ma capitale erotico e capitale cognitivo sono profondamente diversi, il primo è contingente nel tempo e nello spazio, tende a creare stereotipi estetici e sindrome del clone ed è relazionale, necessitante cioè di un altro che mi riconosce bello; Il capitale cognitivo, invece, deriva dall’istruzione ed è produttore  di socialità ad alto valore, è sopraindividuale e favorisce creatività, innovazione e differenziazione.

Passando alla discussione sul capitale erotico, non vi è dubbio che questo faccia parte di quel capitale simbolico alla Bourdieu che poi si traduce in capitale economico.
Il difetto di tutta la discussione, però, sta nell’equiparare bellezza e capitale erotico, mentre la bruttezza o per lo meno la mancanza di bellezza denuncerebbe la mancanza di capitale erotico fin dalla culla .. Sbagliato. La bellezza è notoriamente negli occhi di chi guarda ed è colorata culturalmente. Citerei a questo punto quanto letto sul Corriere del veneto giovedì 18 agosto, sulla storia di Gabrina, amante di Pio Enea II degli Obizzi, che alla sua morte fece costruire una fontana a lei dedicata: “Gabrina qui giace vecchia e lasciva che benché sorda, stralunata e zoppa, si trastullò in amor finchè fu viva”.

In occasione dei sessant’anni dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, è stato Pubblicato il volumetto diritti umani e religioni con le relazioni sui temi affrontati tra il 2009 e il 2010 e fra questi  il diritto alla bellezza dalla sociologa Maria Cecilia Visentin  che scrive “l’individualismo dominante fa sì che la rivendicazione dei diritti dell’uomo si tramuti in affermazione dei diritti dell’individuo più che della persona, ossia dell’essere umano decurtato della dimensione sociale e privo di trascendenza, drammaticamente giuugnendo nella globalizzante imposizione culturale.

Nella visione cattolica una corretta interpretazione ed un’efficace tutela dei diritti dipendono da un’antropologia che abbraccia la totalità delle dimensioni costitutive della persona umana. La dignità umana, uguale in ogni persona, è, pertanto, la ragione ultima per cui i diritti possono essere rivendicati per sé e per gli altri con maggior forza.  In questo senso la bellezza è un diritto, concetto sostenuto anche dal Pietro Lorenzetti, Direttore Scientifico dell’Istituto Villa Borghese di Roma che ha partecipato in veste di relatore e che, riferendosi ad interventi ricostruttivi post mastectomie in campo oncologico, così si esprime ” Quando devo effettuare una ricostruzione mi trovo davanti a problematiche completamente diverse da quelle estetiche così come ad aspettative che devono essere mediate. Un intervento di rimozione di un tumore talora  è molto radicale e la ferita che lascia è molto più profonda di quella fisica, perchè lede l’integrità dell’io. Quando ricostruiamo un seno ferito dal tumore accettiamo un testimone scomodo dai medici che hanno salvato la vita a quella paziente. Chi dice che è possibile avere lo stesso risultato di un intervento estetico mente, ci sforziamo di dare a queste donne una vita dignitosa nel rapporto con se stesse e con il partner”

It was the height of Rio’s sticky summer and the city had almost slowed to a standstill, as had progress on my anthropology doctorate research on Afro-Brazilian syncretism.The beauty of the human body has raised distinct ethical issues for different epochs. E torno al tema per avviarmi alla conclusione, riproponendomi  una domanda, può la bellezza considerarsi al pari di altri diritti al punto di essere realizzata con l’aiuto di istituzioni pubbliche? The question might seem absurd. La domanda può sembrare assurda anche nel nuovo  Brasile che ha ratificato un ambizioso diritto costituzionale alla salute. Public hospitals, though, are poorly funded and often beset by long lines, crumbling infrastructure and rude service. Ospedali pubblici, però, sono scarsamente finanziati e spesso assediati da attese  lunghe, fatiscenti infrastrutture e servizi inefficienti. (My middle class Brazilian friends, who pay enviably low premiums for private health insurance, generally would not set foot in one.) A right to beauty thus seems to value a rather frivolous concern in a country with more pressing problems — from tropical diseases, like dengue, to the diseases of civilization, like diabetes.Il diritto alla bellezza sembra dunque il valore di una preoccupazione piuttosto frivola in quei paese con problemi più pressanti. Yet to an outsider trying to understand a new society, such a view had a whiff of condescension. Eppure, cercando di capire una nuova società, tale punto di vista ha avuto ampia condiscendenza, ricorrendo anche ad una giustificazione terapeutica radicale, laddove l’oggetto reale di guarigione non è il corpo, ma la mente; si è giunti a definire un chirurgo plastico uno psicologo con un bisturi in mano sia per le procedure estetiche che per quelle ricostruttive, la chirurgia e la guarigione mentale sottilmente si mescolano a tutela della salute. I remembered the remark of a Carnival designer: “Only intellectuals like misery, the poor want luxury.” I wanted to try to understand what this medical practice meant to the people who practiced it and claimed they benefited from it.

But does cosmetic surgery deliver the benefits it claims to?While the “talking cure” treated bodily complaints via the mind, plastic surgery healed mental suffering via the body. Mentre la “cura parlante” tratta i reclami del corpo attraverso la mente, la chirurgia plastica guarisce la  sofferenza mentale attraverso il corpo. Historian Sander Gilman called plastic surgery “psychoanalysis in reverse.” In Brazil, as in Argentina, psychoanalysis enjoyed extraordinary popularity among wealthier Brazilians. Lo storico Sander Gilman definisce la chirurgia plastica la “psicoanalisi al contrario” portando alla visione di uno psicanalista che sa tutto ma non cambia nulla, e ad un plastico che non sa nulla ma cambia tutto. Per far rientrare la chirurgia nell’ambito delle psicoterapie, mancava, però,  una diagnosi valida. Il riferimento al complesso di inferiorità secondo lo psicoanalista Alfred Adler – e più tardi la bassa autostima – hanno fornito l’ anello mancante.

Questo ha portato ad un nuovo atteggiamento nell’analizzare il rapporto fra aspetto e salute mentale: l’idea che almeno alcuni difetti causano sofferenza ingiusta e stigma sociale è certamente vero.But Brazilian surgeons take this reasoning a step further. Di qui potrebbe apparire concreta la visione di una prestazione al  Cosmetic surgery is a consumer service in most of the world.alservizio dei consumatori, anche ai soli fini estetici, essendo  una “vanità necessaria”.The growth of plastic surgery thus reflects a new way of working not only on the suffering mind, but also on the erotic body.  Sino a che punto peraltro, se lo sviluppo di questa specialistica riflette sempre più una nuova impostazione sociale, non solo terapia della mente, ma stimolante l’attrazione erotica, finendo col confondere la rimozione di difetti con la giocosa dissimulazione e con la  seduzione, contribuendo a una visione biologizzata di sesso dove piacere e fantasia sono  limitati dall’anatomica verità del corpo nudo.

This notion of a right points to a potential problem with rights during a period when consumers are becoming a more powerful political force. Pitanguy’s philosophy is disturbing for many reasons, yet it suggests a point about the significance of attractiveness often overlooked in philosophical or academic discussion.Pierre Bourdieu, superando anche Marx, sosteneva cheBeauty is unfair: the attractive enjoy privileges and powers gained without merit. La bellezza è un bene ingiusto: i privilegiati godono di vantaggi  senza merito. As such it can offend egalitarian values. Come tale può offendere valori egualitari, pertanto, se Yet while attractiveness is a quality “awarded” to those who don’t morally deserve it, it can also grant power to those excluded from other systems of privilege. è una qualità “assegnata” a coloro che non lo meritano moralmente, può anche concedere potere a coloro che sono esclusi da altri sistemi di privilegio. It is a kind of “double negative”: a form of power that is unfairly distributed but which can disturb other unfair hierarchies. Si tratterebbe in altre parole  di una sorta di “doppio negativo”: una forma di potere che viene ingiustamente distribuita, ma che può disturbare altri valori slealmente. For this reason it may have democratic appeal. Per questo motivo in aree urbane povere la In Brazil’s favelas many dreams for social mobility center on the body. seduzione può divenire un mezzo per sfuggire alla povertà. Ecco il capitale erotico, utilizzato in attesa di un cambiamento collettivo.Powerful attractions that cross class lines are a favorite theme in telenovelas.The psychoanalyst knows everything but changes nothing.

Come contraltare non si può che fare ricorso a Kant che nelle Osservazioni sul sentimento del Bello e Sublime (1764)  afferma “la bellezza è un parere che proviene da un consenso della maggioranza in una società particolare that find an inspiring satisfaction in some thing. che trova New York Times soddisfazione ispirando un qualche cosa; Most often it relates to our primary sense–vision– Il più delle volte si riferisce al nostro senso primario –la  visione – but it could relate to any of our senses. ma potrebbe riferirsi a qualsiasi altro dei nostri sensi.  Bellezza come forma egualitaria di capitale sociale quindi,  come un diritto per superare barriere sociali e culturali , è questo lo sdoganamento per un diritto riconosciuto istituzionalmenteBeauty as egalitarian form of social capital

  Il disaccordo con la pratica estetica viene spesso identificato in un atteggiamento” antiquato, militarista, grossolano, repressivo della libertà delle donne a fare ciò che vogliono con i loro corpi”, come definito dai venezuelani  un articolo del New York Times dell’ 8 marzo 2011 ,  riferendosi al caso dell’ ultima vittima di un intervento di mastoplastica additiva.
  Troppa enfasi sulla funzione dell’immagine ci rende ciechi alla realtà della vita sia del  corpo che delle sue sensazioni.

Le pazienti che hanno effettuato trattamenti di chirurgia plastica ripetutamente hanno delle grosse difficoltà di identificazione con la loro immagine femminile Pensiamo a tutte le donne che non riescono ad accettare l’invecchiamento, che vivono con terrore il passare del tempo e che si riducono ad essere l’una la falsa copia dell’altra, con gli stessi tratti del viso, le stesse labbra ritoccate le stesse rughe che non ci sono e guai a strappare un sorriso non troppo contenuto. Anche in questi casi le difficoltà ad accettarsi sono notevoli e non si tratta solo di farsi più belle o di migliorare il proprio aspetto, ma di stravolgere dei volti il cui ricordo si può vedere solo in vecchie fotografie. Come pure i giovani che ricorrono al bisturi per migliorare un corpo in evoluzione, per emulare personaggi dello spettacolo che fanno parte di una realtà lontana e diversa dalla loro, con il consenso di genitori che accettano tutto pur di vedere “felici” i loro figli senza chiedersi però il perché di quella ricerca.

Sappiamo bene come psiche e corpo hanno influenza reciproca e risulta quindi impensabile che un corpo stravolto non abbia effetti sulla mente.

E si nota subito come il nesso tra chirurgia plastica e psicologia è molto rilevante poiché la mancata considerazione dei bisogni psicologici di base sia da parte del chirurgo sia da parte della paziente può portare a risultati preoccupanti in termini di salute mentale come stati depressivi acuti, somatizzazioni, ed in molti casi stati di ansia generalizzata con frequenti attacchi di panico.Ma da quali pericoli ci difendiamo? Che cosa ci fa paura?

Tante le risposte e le opinioni, ma soprattutto la paura dell’invecchiamento, dimentiche che una donna bella non significa una donna senza rughe, ma nella valutazione personale le rughe non sono tutte uguali: alcune non deturpano, umanizzano.

Per concludere ricordo Anna Magnani che insegna, come dobbiamo rispettare noi stessi e il nostro vissuto, riconoscendo nella “bellezza”, la sicurezza e la dignità di essere donna, di essere attrice, di essere bella. Al suo truccatore imponeva di non toccarle alcuna delle sue rughe perchè ci aveva messo una vita a farle.

Diritto alla bellezza o non ? è un quesito che non mi sarei posto, riconoscendo il diritto individuale di soddisfare le proprie esigenze, pur convinto che il più spesso ricercando una bellezza artificiale, ricerchiamo qualcosa di diverso che non comprendiamo e a cui non sappiamo trovare risposta.  Certo, eliminando quel disestetismo patologico,connesso a esiti di patologie, traumi e interventi chirurgici, per un disestetismo sostenuto da patologie psichiche adeguatamente comprovate, similmente alla legge sul transessualismo che consente  l’adeguamento dei caratteri somatici alla identità psichica.

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Italian Text: Microembolia di materiale laterizio. Segnalazione di un caso.

PIERUCCI G. , ALONZO M. , TAJANA L. : Foreign Body Pulmonary Microembolism Of Building Material. Case Report.

PIERUCCI G. (*), ALONZO M. (**), TAJANA L. (***)

Foreign Body Pulmonary Microembolism Of Building Material. Case Report.

(*) Professore emerito di Medicina Legale – Università di Pavia, Italia; (**)   Dirigente Medico – Servizio Medicina Legale ASL Cremona, Italia; (***) Dipartimento di Medicina Legale – Università dell’Insubria – Varese, Italia. Corresponding Author: johannespierucci@gmail.it

 

ABSTRACT

We present a case of foreign body pulmonary microembolism (FBM), observed during a systematic histological review of medicolegal autopsies. In particular, we saw microemboli due to building material in a 62-year old construction worker, found dead under a conveyor belt-roller, with deep erosion on his left forearm and in the left clavear region, subclavian vein laceration, venous aerian embolism and rib fracture. The nature of the foreign bodies was revealed by SEM-DES, through elementar analysis, with detection of Al, Fe, Si, Ca and Ti.

We emphasise the necessity of systematic histological control of medicolegal autopsies, possibly with more extensive and sofisticated investigation and the importance of FBM among topics the causes of death and vital reaction.

Italian full-text is available at/E’ possibile scaricare la versione italiana da  www.ijlm.it

 

A variety of foreign bodies may be found as emboli during forensic autopsies and histology: shotgun pellets and bullets can enter the circulation and embolise to various sites (Schurr et al. 1996; Yoshiora et al. 1995); particles of talcum can be seen in lungs as contaminants of intravenous drugs and cause foreign body granulomatous arteriolitis; air bubbles enter vessels in case of venous or systemic air embolism (Jorens et al.). If they can only be detected microscopically, the same emboli may be called “foreign body microemboli” (Janssen 1993; Kringsholm 1993). Hence, air embolism is not a true foreign body microembolism, since it is macroscopically detectable.

The following case, although associated with air embolism, is an example of true foreign body microembolism and presents some interesting forensic aspects.

A 62-year old construction worker was found dead at 9.30 a.m. of the 21.1.2000 by a fellow worker, who had seen him alive about an hour before. The body lay under a conveyor belt-roller, almost sitting on a metal bracket on the right side of the machine, with its trunk horinzontal but twisted under the drive cog-wheel, and its left arm together with the shoulder and part of the base of the neck –  wedged between the rubber converyor belt and its roller.

1: General view of the machine. On the left: the heap of building material.

2: The conveyor belt-roller of the machine.

3: the body is struck with its left shoulder between the rubber conveyor belt and its roller.

At autopsy (no 12.097 of Pavia Legal Medicine Department): traces of burnt clothes at friction points. External examination: wide abrasion to the left cheek; long and deep skin and muscle (trapezius) wound, with bruised and partially burned edges, between the neck and shoulder, splitting into two parts: in the left suprascapularis-scapularis region, and in the left fossa supraclavicularis, clavicularis and infraclavicularis regions. Near the wound, there were burned areas with blisters: in one of these, in the left sternalis-mammalian region, there was the impression of a small crucifix worn as a pendant. On the bottom of the wound, the clavicle showed an erosion area, as if the bone had been rasped. A similar, smaller skin-to-bone (radius) erosive area, with skin burning traces, was present on the left forearm.

 

4: Wound with bruised and burned edges between neck and left shoulder. Impression of a small crucifix (arrow). Note erosion of the clavicle. 5: Left forearm: exposed radius, erosive area.

 

The section was performed according to Richter’s technique for gas-embolism detection. The main findings were: 12 ml gas in the right ventricle of the heart (following chemical analysis: consistent with air embolism); left subclavian vein ruptured at the site of clavicular erosion; left 1-6 ribs fracture along anterior axillaris linie; lungs (r = 550 g; l = 490 g) with subpleural emphysema and with oedema-blood congestion.

 

6 – 7: Left clavicle after removal: upper and front view.

Histological examination (buffered formol fixation; paraffin embedding; H & E) was performed on specimens from all organs, but the main pictures regarded skin, left subclavian vein and lungs.

Skin: complete wound, with bruised and burned edges (blisters; nuclear elongation of basal epithelium); smearing by exogenous, mainly crystal-material.

L-Subclavian vein: the wall was broken and bruised, particularly in the laceration recess and in the adventitia.

Lung. Many fields of oedema-haemorrhage. Arteriolar and capillar net: showed frequent interruption of the blood column by various images: regularly vacuolar, with haemolytis halo (like fat embolism); clusters of irregular vacuoles, mainly without haemolytic halo; mass as of finely granular substance, containing many birefringent crystals.

SEM-EDS-examination of the lung (thick section on cellophane support or directly on the stub; metallization with golden salts): presence of Al, Fe, Si, Ca, Ti in the exogenous endovasal material.

 

8 – 9: Branches of a pulmonary arteriola, under standard and polarized  light: in the lumen, masses of finely granular substances, containing many bi-refracting crystals. H & E., 240 x.

 

10: SEM-picture of foreign body microembolism in the lumen of a pulmonary arteriola. 11: SEM-EDS. Spectrum of a foreign particle in the lumen of a pulmonary arteriola: presence, besides C and Ca, of Ti, Al and Si.

 

Discussion.

SEM elementary analysis by energy dispersive scan (EDS) of the described lung microemboli shows their exogenous nature, derived in particular from building materials crushed by the machine. The phenomenon of foreignbody lung embolism is of great interest in forensic pathology, as a marker of general vital reaction (Janssen 1977).

The crushed material obviously entered the vessel bed through the “entrance door” showed at autopsy, i.e. through the ruptured wall of the left subclavian vein. Because of the particular (negative) blood pressure, at the occurrence of a wound the vessel can act as a suction pump. In this case, the “pump” sucked both air and the building material. Air aspiration in the vein caused the air embolism; this was detected at autopsy with a suitable tecnique, i.e. according to Richter’s technique (1905), confirmed at histology and by chemical analysis of the recovered gas.

The solid sucted material came from the conveyor belt and from the roller wheel, whose friction had caused the wound and burns in the left neck-shoulder region and on the left forearm. Probably the victim was caught in the roller wheel and the conveyor belt, while he was checking the functioning of the machine.

FBM and air embolism may have shared with violent asphyxia (thorax compression) in determining death.

The illustrated case represents to our mind a significant example of the importance of systematic histological screening and a successive morpho-analytical search by SEM-EDS correctly and completely to assess forensic-pathological autopsies.

 

REFERENCES

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Yoshiora H., Seibel R.W., Pillai K., Luchette F.A. (1995) Shotgun wounds and pellett emboli: case report and review of the literature. J. Trauma 39: 596-

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DEL TESTO INTEGRALE (IN ITALIANO)

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MAIESE A. , BOLINO G.: A Case of Unexpected Cardiac Death Due To an Abnormality Of The Antolateral Papillary Muscle

MAIESE A. (*) , BOLINO G.*

 

A Case of Unexpected Cardiac Death Due To an Abnormality Of The Antolateral Papillary Muscle

 

(*)Rome University “Sapienza” – Dipartimento di Scienze Anatomiche, Istologiche, Medico Legali e dell’Apparato Locomotore, Viale Regina Elena, 336 – 00161 Rome.  Corresponding author: aniellomaiese@msn.com

 

Key Words: sudden death, anomalies of mitral subvalvular apparatus, ventricular hypertrophy.

 

 

 

 

ABSTRACT

 

The unexpected death (UD), despite the identification of more appropriate and targeted preventive and therapeutic strategies, continues to be a “challenge” for modern medicine and even more for the forensic pathologist. In determining the precise cause of sudden cardiac death the only possible way is that represented by the survey autopsy. One cause of UD can be represented by abnormalities of the mitral subvalvular. The case we observed, is a peculiar case of sudden death secondary to papillary muscle supernumerary, in the absence of other causes of death of justification.

 

 

RIASSUNTO

 

Un caso di morte improvvisa conseguente ad un’ anomalia del muscolo papillare anterolaterale.

 

La morte improvvisa (MI), nonostante l’individuazione di sempre più adeguate e mirate strategie preventive e terapeutiche, continua a rappresentare una “sfida” per la medicina moderna e ancor più per il patologo forense. Nello stabilire la causa precisa di morte improvvisa cardiaca l’unico mezzo possibile è quello rappresentato dall’indagine autoptica. Una causa di MI può essere rappresentata da anomalie dell’apparato sottovalvolare mitralico. Il caso da noi osservato, tratta di un peculiare caso di morte improvvisa secondaria a muscolo papillare soprannumerario, in assenza di altre cause giustificative di decesso.

 


  1. INTRODUCTION

 

Among all the congenital heart diseases, valvular structures abnormalities account for 1% and the mitral changes (0.49%) are the most several, difficult and common [1]. Their physiopathological consequences are stenosis, insufficiency, steno-failure or mitral prolapse [2]. In spite of the constant spotting of adequate and targeted preventive/therapeutic strategies, the unexpected death (UD) is still a “challenge” for the modern medicine and for the forensic pathologist.

Here below, we present a case of UD of a young man, apparently healthy, whose autopsy revealed just the presence of an extra-tip of anterolateral papillary muscle near the mitral valve.

 

  1. CASE REPORT

 

A 18-years-old boy, waking up in the morning, fainted and instantly died. The medical history of his family only highlighted that the father of the boy died because of uncertain cardiac reasons. The recent and past anamnesis were negative. The external examination revealed multiple small excoriations on the face, with front dental fracture referable to the fall after the fainting. The internal examination didn’t show any pathologic change, with exception of the heart. It weighted 360g, 50% depended by each ventricle; the epicardium showed no changes. Seriate section of the left descendant coronary artery showed an intramural course of about 3mm. The anterolateral papillary muscle had a relevant distortion, presenting an accessory tip over the anteromedial edge of mitral valve (Fig.1), whose edges showed no changes. The cut surface of the myocardium had no focal changes; on the contrary, the histological investigation highlighted light myocellular hypertrophy, with focal myocardial disarray prevalently observed at the free wall of left ventricle and subaortic septum , perivascular fibrosis, and hyperplasia of the tunica media. The toxicological investigation showed negative results.

 

A       B

FIGURE 1: A, Section of left ventricle showing the accessory tip of the anterolateral papillary muscle. B, insertion of the anterolateral tip of the papillary muscle over the mitral valve.

 

  1. DISCUSSION

 

A topographical classification [3] subdivides valve anomalies in valvular (valvular edges and valvular ring) and sub-valvular (tensor system: papillary muscles and tendineous cords). Mitral stenosis is mainly caused by congenital fusion of commisures or presence of additional mitral tissue. On the other hand, mitral deficiency is typical in case of cleft isolated from the frontal edge of the valve or  dysplasia of the edges [4]. In these cases, there is evidence of shortened tendineous cords together with dysplastic valvular edges. When an isolated cleft of the mitral valve, the defect of the flap is directed towards the left ventricular outflow tract. If the valve is dysplastic ,the chordal apparatus is shortened with varying degrees of dysplasia of the flaps.

The most frequent congenital abnormality of sub-valvular structures is the so-called “parachute mitral valve” , that presents one papillary muscle inside the left ventricle or two that are very close to each other. All the tendineous cords, turned to both edges, come from the end of a singular papillary muscle, hence the intercordal spaces are very narrow, causing a sub-valvular obstruction. In adults, this condition can be present as isolated phenomenon. In newborn or infants, often “parachute mitral valve” is associated to aortic stenosis or coarctation, and to a supravalvular mitral membrane, confirming in this way the Shone Syndrome [5]. There is also another anomaly worth to be mentioned, the so-called “mitral one with arch” [6], in which the two papillary muscles are joined on the free limit of the frontal edge, creating a muscular arch. Finally, we can find dysplastic abnormalities of sub-valvular system as lengthening of a papillary muscle, agenesis of papillary muscles, accessory papillary muscles, lengthening or agenesis of tendineous cords; all these changes may cause  valvular  deficiency or prolapse [7] .

Sudden unexpected death may mainly have a cardiac or non cardiac etiology . Sudden cardiac death (SCD)may be linked to coronary and non coronary causes (early cardiomyopathies; congenital cardiomyopathies; valvulopathies; etc.). In post-mortem series ischemic cardiomyopathy (IC) is the most frequent cause of SCD, followed by the cardiomyopathies (10-15%) and by valvular diseases [8].

To establish the exact cause of a SCD, the only way is a post-mortem investigation.

However, at autopsy, the heart often looks macro and microscopically normal. For MIC caused by arrhythmia, it can also happen that the myocardic substrate presents subacute or chronic pathologies, and that the precipitant event – “trigger” (stress, electrolytic changes, etc.) remains unknown. The causes of an unexpected death can be classified as: clear causes ( i.e. pulmonary embolism, breaking of aorta or heart with cardiac plugging, rupture of papillary muscle, etc.), probable causes (i.e.: arteriosclerotic plates with stenosis >75%, post-infarction scars, cardiomyopathy, etc.), possible causes (i.e.: abnormalities of coronary arteries, mitral prolapse without valvular deficiency, etc.).

The presence of an accessory papillary muscle can cause the development of valvular deficiency or a prolapse of the mitral valve, as well as myocardium hypertrophy [9-10], ideal substrate for the development of uneven phenomena (ventricular fibrillation), one of the causes of unexpected death. In the current case, in light of our findings, we believe that a malignant cardiac arrhythmia is a possible explanation for the patient’s death, in the absence of any other pathologic findings or major structural abnormalities, although histo-pathological investigation could have been more accurate to highlight anomalies on a genetic cause of fatal arrhythmias.

Furthermore, we underline the importance to inform the family of a possible, and genetically derived, congenital cardiac pathology [11], in order to evaluate the need to perform preventive diagnostic-instrumental analysis. In the case we examined, the genetic analysis hasn’t been done because the  Public prosecutor has no interest in investigating the specificity of a natural death; also the mother decided to put off since she has no other children and the previous death of her husband.

In conclusion, we believe that clinicians and forensic pathologists should be aware of this entity both for a more detailed pathologic and anatomic studies of anomalous insertion classification and for differential diagnoses.

 

REFERENCES

 

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[11]  Friedlander Y. et al.: Family history as a risk factor for primary cardiac arrest. Circul 1998; 97: 155-160.

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GITTO L., VULLO A., DE MARI G.M. : Identification of the murder weapon by the analysis of an atypical pattern of sharp force injury.

GITTO L. (*), VULLO A. (*), DE MARI G.M. (*)

 

Identification of the murder weapon by the analysis of an atypical pattern of sharp force injury.

 

(*) Rome University “Sapienza” – Dipartimento di Scienze Anatomiche, Istologiche, Medico Legali e dell’Apparato L

ocomotore, Viale Regina Elena, 336 – 00161 Rome. Corresponding author: lorenzo_gitto@libero.it

 

Key Words: sharp force injuries, stabbing,  knife, homicide

 

ABSTRACT

 

This paper presents a peculiar case of homicide committed with a sharp instrument. Since at the crime scene two different knives were found, one near the victim’s body and the other far from the place where the homicide was committed, it was necessary to determine which of these weapons could have caused the bodily injuries sustained by the victim. During post-mortem investigation an unusual damage was found in the vicinity of the fatal wound to the neck, suggesting that the wound was inflicted with a great force, using a sharp object with a peculiar shape. A comparative study between the two weapons was performed in order to determine the compatibility with the abovementioned damage. Consequently, these analyses led us to the identification of the murder weapon and the author of the crime.

 

Parole Chiave: arma bianca, omicidio, lesioni secondarie

 

RIASSUNTO

 

Identificazione dell’arma del delitto attraverso lo studio di lesioni figurate atipiche.

 

In questo lavoro viene presentato un caso particolare di omicidio conseguente all’azione di arma bianca. Sulla scena del crimine sono stati rinvenuti due coltelli differenti, uno in vicinanza del cadavere e l’altro lontano dal luogo del delitto. Durante l’esame necroscopico è stata rilevata una particolare lesione circostante la ferita mortale localizzata al collo, la quale indicava una particolare forza viva che ha animato il colpo inferto alla vittima.  È stata eseguita una comparazione tra le due armi allo scopo di  determinare la compatibilità di una di esse con la inusuale lesione precedentemente descritta. Questa analisi ci ha permesso di identificare la corretta arma del delitto e, tramite essa, l’autore del crimine.

 

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LOMI A.: Legal Medicine in Italy: The times, they are a-changing

Director’s Editorial:

 

LOMI A.

Legal Medicine in Italy: The times, they are a-changing.

 

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